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Non vi è necessariamente ed apoditticamente una violazione del principio del ne bis in idem qualora vi sia un concorso tra reati tributari e bancarotta fraudolenta.

Questo è quanto afferma la Quinta Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione con sentenza 10 gennaio – 2 marzo 2022, n. 7557 (testo in calce).

Nello specifico la Suprema Corte veniva chiamata ad esprimersi su tale situazione a seguito di ricorso lamentante una presunta mancata applicazione del principio di ne bis in idem poiché l’imputato era già stato processato per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 (processo conclusosi con l’assoluzione perchè il fatto non sussiste) e quindi sarebbe improcedibile ex art. 649 c.p.p. la successiva contestazione di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione, trattandosi dello stesso fatto.

Per inquadrare la doglianza, la Suprema Corte ha ricostruito l’attuale divieto vigente in merito al ne bis in idem, partendo da una importante pronuncia della Corte Costituzionale.

Invero, un’importante chiave di lettura della disposizione in argomento si deve alla sentenza della Corte Costituzionale n. 200 del 2016, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 649 c.p.p. per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU (secondo cui “Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato”).

In particolare, la disposizione del nostro codice di rito è stata reputata incostituzionale nella parte in cui escludeva che il fatto fosse il medesimo per la sola circostanza che sussistesse un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui era iniziato il nuovo procedimento penale. Nel circoscrivere il giudizio di incostituzionalità rispetto a quanto opinato dal Giudice rimettente, la pronunzia della Consulta ha indicato all’interprete quale debba essere il percorso di verifica dell’identità del “fatto” che può condurre alla sentenza di improcedibilità ex art. 649 c.p.p.

A questo riguardo, la Corte Costituzionale ha sostenuto che il fatto storico-naturalistico che rileva, ai fini del divieto di bis in idem da leggersi in chiave convenzionale, è “l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi”; criteri normativi – opina il Giudice delle leggi – che ricomprendono non solo l’azione o l’omissione, ma anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto ovvero l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente, secondo una dimensione empirica, così come accertata nel primo giudizio.

Tale concetto – ha ricordato la Consulta – non è estraneo all’esegesi della Corte di cassazione sull’art. 649 codice di rito (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799), laddove si sono valorizzati, quali indicatori delle medesimezza del fatto richiesta dal legislatore, tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale). In altri termini, la verifica circa il bis in idem, pur dovendo attingere il fatto materiale e non già la fattispecie astratta, impone di riguardarlo comunque individuando, nel comportamento sub iudice, gli elementi di sovrapponibilità fattuale rispetto alla struttura della fattispecie come prevista dal legislatore.

Come ha scritto la Corte Costituzionale, il fatto va apprezzato “secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento”, ma, a smentire la possibile riemersione dell’idem legale, “ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell’accadimento naturalistico che l’interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto” (in termini e per un’ampia ricostruzione del tema, cfr. Sez. 5, n. 11049 del 13/11/2017, dep. 2018, Ghelli, Rv. 272839, in motivazione, nonchè Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, Bordogna e altri, Rv. 270387).

E’ bene chiarire – per sgomberare il campo da talune ambiguità interpretative sul tema in discorso che ancora oggi si rilevano – che la soluzione del quesito circa la possibilità di concorso formale tra i due reati – il reato fallimentare e quello tributario – non ha implicazioni, in un senso o in un altro, sulla soluzione della quaestio iuris posta dal ricorrente.

La Consulta, infatti, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., ha escluso che la possibilità astratta che due fattispecie, commesse con un’unica azione od omissione, concorrano tra loro nel caso in cui vengano giudicate insieme consenta di prescindere, quando si tratti di raffrontare situazioni oggetto di diversi processi – l’uno già conclusosi, l’altro in corso di svolgimento – dalla verifica circa la medesimezza del fatto nella chiave sopra evidenziata e di processare comunque nuovamente l’imputato già condannato per il primo reato (ripudiando così il diritto vivente fino ad allora emerso dalla giurisprudenza di questa Corte). A questo proposito, la Corte Costituzionale ha però anche escluso che vi siano implicazioni a contrario, nel senso che, ogni qualvolta possa ipotizzarsi in astratto un concorso formale tra due reati, automaticamente vi sia medesimezza del fatto e debba operare, pertanto, il divieto di bis in idem. Ciò, d’altra parte, è la logica conseguenza della diversità di piani su cui si collocano le valutazioni a farsi in punto di concorso formale e di idem factum, dal momento che lo Stato può ben scegliere di far confluire sulla medesima condotta due fattispecie penali senza che si violi la garanzia individuale del divieto di bis in idem, “che si sviluppa invece con assolutezza in una dimensione esclusivamente processuale, e preclude non il simultaneus processus per distinti reati commessi con il medesimo fatto, ma una seconda iniziativa penale, laddove tale fatto sia già stato oggetto di una pronuncia di carattere definitivo” (così la Consulta).

Sostiene, ancora, la Corte Costituzionale che “In definitiva l’esistenza o no di un concorso formale tra i reati oggetto della res iudicata e della res iudicanda è un fattore ininfluente ai fini dell’applicazione dell’art. 649 c.p.p., una volta che questa disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale, e l’ininfluenza gioca in entrambe le direzioni, perchè è permesso, ma non è prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano stati eseguiti in concorso formale.

Ai fini della decisione sull’applicabilità del divieto di bis in idem rileva infatti solo il giudizio sul fatto storico”. In definitiva, quindi, per verificare se vi sia bis in idem, il raffronto deve essere tra la prima contestazione, per come si è sviluppata nel processo, e il fatto posto a base della nuova iniziativa del pubblico ministero, secondo una prospettiva concreta e non legata alla struttura delle fattispecie ma pur sempre inquadrando gli accadimenti storici secondo la “griglia” normativa condotta-nesso causale-evento; nell’effettuare detta operazione, si deve tuttavia prescindere dalla risoluzione dell’ulteriore interrogativo – estraneo al tema del bis in idem processuale in chiave convenzionale – se tra i due reati possa esservi concorso formale e, quindi, prescindere dai vari criteri interpretativi su questo distinto tema.

Fatta questa premessa e riguardando le fattispecie concrete poste al vaglio del Collegio, va osservato che vi sono due momenti di distinguo tra le condotte contestate nell’uno e nell’altro processo, che impediscono di ritenere la sovrapponibilità predicata dal ricorrente.

In primo luogo, si osserva che non vi è una completa sovrapposizione tra le condotte oggetto dei due procedimenti, in quanto, nel processo in corso, si contesta la sottrazione di tutte le scritture fino alla data del fallimento, mentre, nel processo per il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ci si riferiva ai fatti anteriori alla data dell’accertamento della Guardia di Finanza. Ne consegue che le due condotte non coincidono quanto all’oggetto del reato che concerne una più ampia piattaforma documenta

Ciò segna una differenza tra le due condotte, che costituisce un primo ostacolo all’invocata improcedibilità.

Il secondo momento di differenziazione concerne la natura delle scritture che, nel caso del reato fallimentare, sono tutte quelle obbligatorie e quelle facoltative richieste dalle dimensioni dell’impresa, come sancito dall’art. 2214 c.c., commi 1 e 2, mentre, quanto al reato tributario, sono costituite solo da quelle obbligatorie ai fini fiscali. In questo senso, l’esame della censura risente particolarmente del difetto di allegazione del ricorrente, sicchè, in mancanza di qualsivoglia specificazione circa le scritture di cui concretamente si contestava la sottrazione nel processo di Foligno, non ci si può che limitare alla lettura della contestazione elevata dal pubblico ministero e riportata nell’epigrafe della sentenza allegata al ricorso (in cui si parla di “documenti contabili e fiscali di cui era obbligatoria la conservazione”), riguardandola alla luce dell’esegesi giurisprudenziale sul punto.

Secondo Sez. 5 n. 32367 del 2016 (che ha concluso negativamente circa l’esistenza di un bis in idem, in una situazione analoga a quella odierna), il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 indica quale oggetto della condotta le “scritture contabili” o i “documenti di cui è obbligatoria la conservazione” ai fini fiscali, che comprendono non solo quelle formalmente istituite in ossequio a specifico dettato normativo, ma anche quelle obbligatorie in relazione alla natura ed alle dimensioni dell’impresa (es. libro cassa, scritture di magazzino, scadenzario et similia), nonchè la corrispondenza posta in essere nel corso dei singoli affari, il cui obbligo di conservazione deve farsi risalire al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, comma 3 (Sez. 3, n. 1377 del 01/12/2011). La bancarotta fraudolenta documentale ha ad oggetto, invece, i libri previsti obbligatoriamente dall’art. 2214 c.c. (in primis libro giornale e libro degli inventari), nonchè le scritture contabili richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa – indipendentemente dall’obbligo di conservazione fiscale – che consentano, tuttavia, la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (negli stessi sensi, quanto alla differente base documentale, Sez. 5, n. 35591 del 20/06/2017, Fagioli e altro, Rv. 270811; Sez. 5, n. 16360 del 01/03/2011, Romele, Rv. 250175).

CASSAZIONE PENALE, SENTENZA N. 7557/2022 >> SCARICA IL PDF

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