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L’abrogazione della l. 339/03 deve riconoscersi avvenuta ad agosto 2012 in forza degli artt. 2 e 12 del DPR 137/2012; nonchè in forza dell’ art. 3, comma 5-bis, del decreto legge 138/2011, in relazione al comma 5, lettera a) del medesimo art. 3 del decreto legge 138/2011.


L’esito abrogativo appare ineludibile anche in considerazione dei criteri interpretativi imposti dall’ art. 1, comma 2, del d.l. 1/2012 con riguardo a tutte “le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all’accesso ed all’esercizio delle attività economiche“, non essendo certo escluse dal concetto di “attività economiche” le attività di prestazione del servizio professionale di avvocato.


La Carta delle libertà fondamentali dell’Unione europea, al paragrafo 1 dell’art. 15, intitolato “Libertà professionale e diritto di lavorare“, solennemente afferma che “Ogni individuo ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata“. Ci conferma, in tal modo, che accedere a una professione e svolgerla in sana concorrenza è un diritto primario di libertà, non comprimibile da interessi corporativi in quanto espressione di quel diritto al lavoro che la nostra Costituzione pone a fondamento dell’Italia, quale Repubblica democratica.


Spesso la Corte costituzionale s’è orientata seguendo questa stella polare della libertà di lavorare. Quando l’ha fatto ha contrastato l’opinione (oggi, in vero, rafforzata dal trattamento di favore -per l’assenza di diritti quesiti nei soggetti che saranno ammessi a godere di pensione in misura corrispondente a regole superate- riservato ai c.d. “esodati”) che l’Italia sia una Repubblica fondata sulle pensioni, ancor più che sul lavoro.


Ad esempio, la sentenza della Corte costituzionale 443 del 21/12/2007 ha ribadito (specie al paragrafo 6.3 delle “considerazioni in diritto”) la “funzionalizzazione finalistica della <<tutela della concorrenza>> imposta dal’art. 117 della Costituzione, che, anche in materia di servizi professionali di avvocato, deve essere contrassegnata da limiti oggettivi di proporzionalità e adeguatezza più volte indicati da questa Corte (da ultimo sentenze n. 430 e 401 del 2007)“.


Ebbene, nell’ambito dei recenti interventi -del legislatore e del Governo- tesi alla “liberalizzazione” delle professioni, uno dei limiti all’accesso alla professione di avvocato che è stato rimosso è l’incompatibilita prevista dalla l. 339/03 nei confronti dei dipendenti pubblici a part time ridotto. Ne è derivata la riespansione, pure a disciplina dell’accesso alla professione forense, delle norme di cui ai commi 56 e seguenti dell’art. 1 della l. 662/1996.


Infatti, il DPR 137/2012 (art. 2 e 12, comma 2), dando (parzialmente) attuazione all’art. 3, comma 5, lettere da a) a g), del d.l. 138/11, ha determinato la abrogazione dei limiti al libero accesso alla professione forense e al suo successivo esercizio che:


1) con riguardo all’accesso alla professione (iscrizione all’albo) risultavano non fondati su “motivi imperativi di interesse generale” (art. 2, comma 1, del DPR 137/2012);


2) con riguardo al successivo esercizio della professione forense risultavano sproporzionati rispetto al fine della salvaguardia della autonomia e dell’indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, dell’avvocato (art. 2, comma 2, del DPR 137/2012);


3) con riguardo sia all’accesso alla professione forense (iscrizione all’albo) sia al suo successivo esercizio risultavano discriminatori (art. 2, comma 4, del DPR 137/2012);


4) con riguardo sia all’accesso alla professione forense (iscrizione all’albo) sia al suo successivo esercizio consistevano in limitazioni basate sul solo fatto che l’attività professionale forense non fosse l’attività abituale e prevalente dell’abilitato (art. 2, comma 3, del DPR 137/2012) .


Si deve, comunque, riconoscere che l’abrogazione delle norme degli ordinamenti professionali contrastanti coi principi di cui alle lettere da a) a g) del comma 5 dell’art. 3 del d.l. 138/2011 è avvenuta “in ogni caso” il 13 agosto 2012 in forza del comma 5-bis dell’art. 3 del d.l. 138/2011.


Lo afferma anche l’art. 12 del DPR 137/2012.


Dall’entrata in vigore del D.P.R. 137/2012, e “in ogni caso” dal 13 agosto 2012 -salve le eccezionali ipotesi di cui all’art. 2, commi 1 e 3, del DPR 137/2012, tra le quali quelle in cui risultano oggettive ragioni imperative d’interesse generale- l’accesso libero (di chi ha superato l’esame di Stato) alla professione è la regola e sono ammessi solo procedimenti amministrativi di controllo “ex post” (cioè senza ostacoli “a monte” che impediscano l’iscrizione all’albo) e “in concreto” degli iscritti all’albo. Ciò in coerenza col dichiarato intento di “liberalizzazione” che ha improntato la rifoma delle professioni in senso pro-concorrenziale.


Tra i limiti al libero accesso alla professione forense e al suo successivo esercizio che sono stati abrogati rientrano sia quello della sussistenza, in capo all’abilitato, di un rapporto di lavoro subordinato privato, sia quello della sussistenza di un rapporto di lavoro pubblico a part time ridotto tra il 30% e il 50% dell’orario ordinario. Le norme abrogate riguardo ai dipendenti privati e ai dipendenti pubblici a part time ridotto si individuano nell’art. 3 della legge professionale forense del 1933 e nella l. 339/2003.


L’abrogazione di tali norme è già stata chiaramente affermata dall’Antitrust, nel parere AS974 del 9/8/2012 (teso a censurare la proposta di legge recante “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, Atto Camera 3900, nel testo licenziato, l’11 giugno 2012, dalla Commissione Giustizia della Camera. Ha, infatti, affermato l’Antitrust, anche con riferimento alle incompatibilità, “che alcune disposizioni della proposta di legge in esame appaiono reintrodurre alcune misure limitative della concorrenza tra i professionisti in questione (che erano state peraltro già superate dai più recenti interventi legislativi di riforma) in assenza dei prescritti requisiti di necessarietà e proporzionalità“. Sempre per ribadire la propria contrarietà alla reintroduzione dell’incompatibilità già prevista dalla l. 339/03 e appena abrogata nell’agosto scorso, l’Antitrust ha scritto nel detto parere: “Pertanto, al fine di non determinare ingiustificate restrizioni concorrenziali, l’Autorità ribadisce che il regime di incompatibilità dovrebbe essere funzionale alla natura e alle caratteristiche dell’attività professionale e risultare necessario e proporzionato a salvaguardare l’autonomia dei soggetti che erogano le prestazioni nonché a tutelare l’integrità degli stessi, caratteri questi indispensabili per il corretto esercizio della professione. In questa ottica, non risultano necessarie né proporzionali, rispetto alla garanzia dell’autonomia degli avvocati o alla tutela dell’integrità del professionista, le incompatibilità a svolgere altre attività di lavoro autonomo o dipendente, anche part-time, né appare giustificata l’imposizione del limite all’iscrizione degli avvocati in altri albi professionali, posto che, in base al principio di responsabilità professionale specifica, l’avvocato, ove svolga attività forense, deve conformarsi alla relativa disciplina. Eventuali situazioni di conflitto di interesse derivanti dallo svolgimento di diverse attività professionali, possono essere risolte con la previsione di strumenti proporzionati, meno restrittivi della libertà di iniziativa economica, quali, ad esempio, le regole di correttezza professionale e i conseguenti obblighi di astensione dallo svolgimento delle attività in conflitto.


Certo, così come sono scritte, le disposizioni di cui all’art. 2 del DPR 137/2012 e quelle dell’art. 3, comma 5, lettera a), del d.l. 138/2011 possono ingenerare qualche dubbio su cosa abroghino e cosa non abroghino. Ma si tratta di dubbi superabili. DELLE DISPOSIZIONI DEL D.L. 138/2011 E DEL DPR 137/2012, INFATTI, E’ POSSIBILE E DOVEROSA UNA INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALMENTE ORIENTATA, che cioè sia tesa alla massima apertura del mercato dei servizi professionali verso la concorrenza e sia tesa alla riduzione delle incompatibilità.


In particolare, non si può sostenere che il richiamo, effettuato nel comma 1 dell’art. 2 del DPR 137/2012, ai “motivi imperativi di interesse generale” faccia salve tutte le limitazioni alle iscrizioni agli albi (incompatibilità) che gli ordinamenti delle singole professioni abbiano posto semplicemente asserendole derivanti da motivi di interesse generale, magari richiamati in Costituzione. Occorre riconoscere, invece, che spesso gli ordinamenti professionali, come in passato disegnati da stratificazioni normative di decenni, hanno posto limiti all’accesso (incompatibilità) che solo in teoria corrispondevano a motivi di interesse generale e che, in sostanza, erano totalmente avulsi da essi. Più spesso gli ordinamenti professionali hanno posto limiti all’accesso non giustificabili con motivi di interesse generale che fossero qualificabili come davvero “imperativi”. Ancor più spesso hanno posto limiti all’accesso, comunque, sproporzionati. Di certo non corrisponde a motivi imperativi di interesse generale, e non è proporzionata al fine perseguito (che sta nella prevenzione del conflitto di interessi e dell’accaparramento di clientela, nonchè nel mantenimento del necessario grado di indipendenza dell’avvocato), l’incompatibilità forense per i dipendenti pubblici a part time ridotto.


L’interpretazione suggerita dagli avversari dei Travet-avvocati risulta, in definitiva, gravemente abrogatrice d’una misura di liberalizzazione che, invece, andrebbe affermata con forza se non si vuole annacquare (e rendere ridicola) una operazione che si intitola alla eliminazione di indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni (vedasi la rubrica dell’art. 3 del d.l. 138/2011).


La riforma delle professioni attraverso l’azione combinata del D.P.R. 137/2012 e dell’effetto abrogativo automatico di cui al comma 5-bis dell’art. 3 del d.l. 138/2011 (effetto abrogativo automatico confermato anche dalla Relazione illustrativa del Governo sul D.P.R., vedasi la sua ultima pagina) non sarebbe una cosa seria se omettesse di sciogliere il nodo centrale delle incompatibilità con questa o quella professione. Una volta scelta la via (apprezzata pure dal Consiglio di Stato, nel suo parere n. 3169 del 10/7/2012, vedasi il primo considerato, pag. 6) dell’adozione di un D.P.R. unico per la riforma di tutte le professioni secondo i principi di cui all’art. 3, comma 5, lettere da a) a g), del d.l. 138/2011, non si può annacquare la riforma, mutilandola della regolazione delle incompatibilità. Non si può sostenere (ripudiando -in adesione al parere espresso dalla Commissione giustizia della Camera- la precedente posizione espressa all’art. 8 dello schema preliminare di D.P.R. approvato dal Consiglio dei ministri il 15/6/2012) che “la disciplina delle incompatibilità all’esercizio della professione non rientra nell’oggetto dell’intervento regolamentare in delegificazione autorizzato dal richiamato articolo 3, comma 5, del decreto-legge n. 138 del 2011” e che “affidare la disciplina delle incompatibilità ad una formulazione di carattere generico e valida per tutte le professioni regolamentate comporta il rischio di notevoli distorsioni interpretative e conseguenti gravi incertezze applicative, non considerando adeguatamente le specificità legate alle singole professioni regolamentate”. Quello delle incompatibilità è evidentemente aspetto centrale della disciplina d’ogni professione e, ancor più evidentemente, è il centro logico di una operazione di liberalizzazione. La liberalizzazione deve operare su tutti gli ambiti della necessaria rimozione di inappropriati limiti alla libertà d’accesso ed esercizio e, dunque, IN PRIMO LUOGO, sulle incompatibilità. Infatti, come si può pretendere di attuare una riforma dell’accesso (pretendendo di connotarlo come “libero”) e dell’esercizio (pretendendo di qualificarlo orientato all’indipendenza di giudizio intellettuale e tecnico del professionista) delle professioni se si accetta la tesi (che, secondo una interpretazione di parte, sarebbe stata fatta propria dal Governo nella Relazione illustrativa del D.P.R. di riforma delle professioni) per cui la materia della regolazione delle incompatibilità delle varie professioni sarebbe estranea alla delega data al Governo da parte dell’art. 3, comma 5, del d.l. 138/2011?


Il Governo, peraltro, non ha fornito, nella Relazione illustrativa del D.P.R. di riforma delle professioni, nessuna motivazione circa la sua presunta adesione, sul punto, al suddetto parere della Commissione giustizia della Camera, “demolitorio” del fulcro dell’operazione di liberalizzazione. Nè, per quanto ci si sforzi, si riesce a trovare una ragione -nel disposto e nella logica ispiratrice della lettera a) del comma 5 dell’art. 3 del d.l. 138/2011– per poter fondare la detta mutilazione della riforma delle professioni. Anzi, a ben guardare, la abrogazione delle norme sulle incompatibilità per svolgimento di lavoro dipendente è presupposta dalla particolare connotazione dell’obbligo assicurativo per la responsabilità professionale del professionista: in particolare, è presupposta dalla previsione che il professionista abbia l’obbligo di assicurarsi per la sua responsabilità verso il solo cliente. Infatti, escludere dall’obbligo assicurativo il professionista iscritto all’albo ma che non abbia diretta responsabilità professionale verso il cliente, perchè non direttamente parte di un contratto per prestazione professionale, implica ammissione della configurabilità della posizione di professionista dipendente di collega e cioè implica il superamento della ipotesi più frequente (sino ad oggi) di incompatibilità secondo i previgenti ordinamenti professionali. Impossibile, poi, ritenere che restino in vigore tutte le incompatibilità “per presunta carenza di indipendenza” tranne quella derivante dalla dipendenza nei confronti di un collega.


In soldoni: che ridicola riforma sarebbe quella che risulterebbe delineata dal testo unico delle “disposizioni aventi forza di legge che non risultano abrogate per effetto del comma 5-bis” (testo unico che il Governo dovrà scrivere entro il 31/12/12 ex art. 3, comma 5-ter, del d.l. 138/2012) se si ritenesse che il Governo debba limitarsi a trascrivere, ribadendole vigenti, tutte le norme di legge che nei vari ordinamenti professionali ingessano l’accesso alle (e l’esercizio delle) professioni? Quindi bisogna evitare di depotenziare il ruolo del D.P.R. 137/2012; anzi ad esso DPR andrebbe riconosciuto, ove possibile, il ruolo di “riempire i vuoti” derivanti dall’effetto abrogante previsto dalla norma primaria di cui all’art. 3, comma 5 bis del d.l. 138/2011. Scrive al riguardo il Consiglio di Stato nel parere n. 3169 del 10/7/2012 (prmo considerato, pag. 6): “In sostanza l’effetto abrogante previsto dalla norma primaria è diretto ad eliminare gli ostacoli normativi che si frappongono alla liberalizzazione delle professioni, e il presente regolamento ha la funzione di riempire i vuoti dando attuazione ai principi contenuto nella norma primaria“.


In definitiva, il D.P.R. 137/2012 non sarebbe una cosa seria se lo si intendesse come incapace di regolare ex novo le incompatibilità (abrogando quelle, numerose, non fondate su “motivi imperativi di interesse generale” previste dai singoli ordinamenti professionali). Esso D.P.R. non sarebbe una cosa seria se, cioè, non lo si interpretasse nel senso che, comunque, anche non prevedendolo espressamente, esso imponga che l’esercizio dell’attività professionale è incompatibile esclusivamente con le attività che del professionista pregiudicano certamente (e in maniera non altrimenti evitabile che con l’incompatibilità) l’autonomia e indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnico (analogamente a quanto prevedeva lo schema preliminare di D.P.R. all’art. 8, poi soppresso, perchè ritenuto superfluo).


Il D.P.R. 137/2012, anche se non prevede più espressamente che “l’esercizio dell’attività professionale è incompatibile esclusivamente con le attività che ne pregiudicano l’autonomia e indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnico” (come era scritto nello schema preliminare di D.P.R. approvato il 15/6/2012 dal Consiglio dei ministri), abroga tutte le norme che prevedevano una incompatibilità con presunzione non necessaria di conflitto di interesse. Comunque, “in ogni caso” l’abrogazione in questione si deve intendere realizzata automaticamente, il 13 agosto 2012, in forza del contrasto col principio di cui all’art. 3, comma 5, lettera a), del d.l. 138/2011 per cui “l’accesso alla professione è libero”.


Una interpretazione che riconosca l’abrogazione (ad opera del comma 5-bis dell’art. 3 del D.L. 138/2011 <in relazione all’art. 3, comma 5, lettera a) del medesimo d.l. 138/2011>, nonchè ad opera dell’art. 12 del DPR 137/2012 <in relazione all’art. 2 del medesimo DPR>, in quanto la mancanza di incompatibilità non è un “titolo per la qualifica e l’esercizio professionale“) di molte delle incompatibilità precedentemente previste dagli ordinamenti professionali come preclusioni all’iscrizione all’albo, appare doverosa innanzitutto per la lettera del comma 3 dell’art. 2 del DPR 137/12. Questo, esplicitamente affermando che non sono ammesse limitazioni … con attività anche abituale e prevalente, stabilisce che è possibile esercitare qualsiasi professione, compresa quella di avvocato, non abitualmente e in maniera non prevalente (il che significa che all’esercizio delle professioni, compresa quella di avvocato, non è più ammessa alcuna limitazione che impedisca preventivamente l’iscrizione agli albi o successivamente comporti la cancellazione dagli albi a causa dello svolgimento d’altra attività lavorativa).


L’interpretazione che riconosca abrogata la l. 339/03, appare doverosa, inoltre, non solo per non creare contraddizione col disposto del comma 5 dell’art. 3 del d.l. 138/11 che dispone che “gli ordinamenti professionali devono garantire che l’esercizio dell’attività risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza, …, alla differenziazione e pluralità di offerta che garantisca l’effettiva possibilità di scelta degli utenti”, ma anche in forza dell’art. 1 del d.l. 1/2012, convertito con modificazioni dalla l. 24/3/2012, n. 27. Tale articolo (compreso nel TITOLO I “Concorrenza”, Capo I “Norme generali sulle liberalizzazioni”), intitolato “Liberalizzazione delle attività economiche e riduzione degli oneri amministrativi sulle imprese”, prevede al comma 2: “Le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all’accesso ed all’esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei principi costituzionali per i quali l’iniziativa economica privata è libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, presenti e futuri, ed ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all’ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l’utilità sociale, con l’ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica.“. Il detto comma 2 del d.l. 1/2012 è evidentemente funzionale alla concreta operatività del comma 5 dell’art. 3 del d.l. 138/2011 e cioè alla connotazione degli ordinamenti professionali, attraverso l’interpretazione e l’applicazione delle norme regolatrici, come capaci di “garantire che l’esercizio dell’attività risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza“.


Occorre conseguentemente riconoscere che (assieme ad altre normative “di chiusura”) la legge 339/03 è stata abrogata ad opera del DPR 137/2012, e “in ogni caso” è stata abrogata alla data del 13 agosto 2012, per contrasto col principio di cui all’art. 3, comma 5, lett. A, del d.l. 138/11, non potendo essa più sopravvivere come eccezione alla generalizzata (e pienamente conforme a Costituzione, in quanto sufficientemente delineata nei suoi contenuti) “liberalizzazione” dei servizi professionali.


Si consideri ancora:


In primo luogo


Non era più consentito discriminare i dipendenti pubblici a part time ridotto, con una insuperabile presunzione di incompatibilità che ne vietava l’iscrizione all’albo, rispetto ad altri soggetti ben più sospettabili di conflitti di interessi, d’accaparramento di clientela e di carenza d’indipendenza: si pensi a ministri, sottosegretari, viceministri, commissari governativi (ai quali l’art. 2 della l. 215/04 consente l’esercizio della professione forense con l’evanescente limite del divieto di patrocinio nella materia relativa all’alta carica ricoperta), e si pensi pure ai tanti avvocati che esercitano la professione mentre sono anche giudici di pace, vice procuratori onorari, parlamentari, insegnanti, mediatori, avvocati sostanzialmente dipendenti di altri avvocati (secondo la Cassa Forense sono decine di migliaia gli avvocati “parasubordinati” di loro colleghi), avvocati sostanzialmente dipendenti di società di capitali aventi ad oggetto sociale lo svolgimento della professione forense.


Andava cancellata la assurda discriminazione dei dipendenti pubblici a part time ridotto che colpiva proprio i soggetti che, come ha chiarito Corte cost. 189/01, sono già stati posti (dai codici deontologici forensi, italiano ed europeo; dalla norma penale che incrimina il patrocinio infedele; dal divieto di patrocinio di cui all’art. 1, comma 56 bis, della l. 662/96; dai decreti delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 58-bis, l. 662/96; dalla possibilità, che ciascuna amministrazione ha, di negare, o revocare, le singole trasformazioni dei rapporti da full time a part time per incompatibilità ritenute in concreto) nella situazione di non poter ragionevolmente minacciare il bene dell’indipendenza dell’avvocato e quello della ragionevole salvaguardia da conflitti di interessi e dall’accaparramento di clientela.


In particolare, quanto alla discriminazione del dipendente pubblico a part time rispetto al parlamentare si nota che essa s’è sostanziata nella, costante (tanto da divenire diritto vivente) quanto immotivata, mancata applicazione, fino ad oggi, in favore dei parlamentari, della norma dell’art. 3 della legge professionale forense del 1933 (r.d.l. 27/11/1933, n. 1578), nella parte in cui prevede l’incompatibilità della professione con “ … qualunque … impiego o ufficio retribuito con stipendio sul bilancio … del Senato, della Camera dei Deputati …“. Detta mancata applicazione appare davvero sconcertante a fronte del chiaro insegnamento della Cassazione (Cass., Sez. III, 20/7/04, n. 13445) per cui i membri del Parlamento italiano sono, anch’essi, percettori di uno stipendio, o meglio, di “reddito lavorativo” (la massima recita: “L’indennità percepita dai membri del parlamento (pubblici funzionari elettivi che prestano la loro attività a titolo oneroso) ha funzione di corrispettivo, con la finalità di garantirne l’indipendenza economica consentendo loro di provvedere anzitutto alle necessità personali e familiari, con la conseguenza che, almeno per la parte non destinata a coprire le spese, ne va riconosciuta la natura di reddito lavorativo“). Occorreva rispondere al dubbio (legittimo) che i parlamentari italiani fossero dei lavoratori privilegiati: il DPR 137/2012 l’ha fatto, abrogando la l. 339/03 e finalmente eliminando la discriminazione in danno dei dipendenti pubblici a part time ridotto. Il DPR 137/2012 non consentirà più irragionevoli disparità di trattamento tra parlamentare e lavoratore subordinato o autonomo, ammettendo entrambi ad esercitare la professione forense in maniera non prevalente e non continua. Non c’è nulla di scandaloso nel fatto che i parlamentari facciano anche l’avvocato (o altre professioni) mentre sono parlamentari, ma di certo non si devono mantenere in vigore incompatibilità che limitano il diritto di lavorare di chi non ha il potere del parlamentare (penso soprattutto ai dipendenti pubblici in part time ridotto e ai dipendenti privati, che non possono, in ciò, esser trattati come pericolosissimi faccendieri).


In secondo luogo (e soprattutto) si deve riconoscere abrogata la l. 339/2003 perchè la prevenzione del rischio di compromissione dell’indipendenza dell’avvocato che sia anche dipendente pubblico a part time ridotto (così come la prevenzione del rischio di conflitti di interesse e dell’accaparramento, da parte sua, di clientela) non può qualificarsi “motivo imperativo di interesse generale” e pertanto non giustifica la permanenza della suddetta incompatibilità. Non può qualificarsi “motivo imperativo di interesse generale” perchè (come ha espressamente riconosciuto il TAR Lazio, Sez. I, ordinanza 10125 del 28/4/2004, punto 1.2.2, e come è evidente, se solo si pensa ai suddetti casi di avvocati ammessi ad esercitare mentre sono ministro, sottosegretario, parlamentare, giudice di pace, ecc…) il complessivo quadro regolatorio delle compatibilità e delle incompatibilità con la professione di avvocato è improntato alla minima compressione delle opportunità d’esercizio della libera professione.


Certamente, per i dipendenti pubblici full time l’art. 53 D.Lgs. 165/01 stabilisce l’incompatibilità, tra l’altro, con la professione forense; diversa, però, è la situazione per i dipendenti pubblici a part time ridotto. Per questi ultimi già la sentenza 189/01 della Corte costituzionale ha spiegato le tante ragioni (ancor più valide oggi, visto che si dovrebbe incentivare la trasformazione di tanti contratti di lavoro da full time a part time per ridurre, attraverso una forma di flessibilità condivisa, l’impatto sociale del forte taglio degli organici della pubblica amministrazione voluto dalla spending review) per le quali è consentito, e utile, ammetterli ad esercitare anche la professione di avvocato. Si legge al punto 6 di Corte cost. 189/01 una affermazione che impone di interpretare il DPR 137/12 e il D.L. 138/2011 come certamente abrogativi della l. 339/03. Afferma Corte cost. 189/2001: “Nell’elidere il vincolo di esclusività della prestazione in favore del datore di lavoro pubblico, il legislatore, proprio per evitare eventuali conflitti di interessi, ha provveduto, infatti, a porre direttamente (ovvero ha consentito alle amministrazioni di porre) rigorosi limiti all’esercizio, da parte del dipendente che richieda il regime di part time ridotto, di ulteriori attività lavorative e, in particolare, di quella professionale forense“. In sostanza, la particolare attenzione che il legislatore ha posto, con riguardo alla professione di avvocato (all’art. 1, commi 56 e seguenti, della l. 662/96), nella prevenzione e controllo dei rischi di conflitti di interesse e di accaparramento di clientela, deve far ritenere che specialmente la professione di avvocato debba esser consentita ai dipendenti pubblici a part time ridotto. Non può più ammettersi che succeda il contrario e cioè che i dipendenti pubblici a part time ridotto possano fare tutte le professioni meno quella forense. Che una tale eccezione (ingiustificatamente anticoncorrenziale) alla regola generale della compatibilità del part time ridotto con tutte le professioni (eccezione reintrodotta, nel 2003, con l. 339/03) sia stata riconosciuta, nel 2006, non incostituzionale (con sentenza della Corte costituzionale 390/2006) non consentiva affatto di continuare, ancora oggi, nel 2012, a ritenerla tale. Si imponeva, ormai, un trattamento omogeneo delle professioni nel senso della massima estensione di libero accesso, concorrenza e verifica tendenzialmente solo ex post delle incompatibilità in concreto. La improcrastinabile “liberalizzazione” deve riconoscersi ora realizzata anche per la professione di avvocato, pena l’incostituzionalità di una legge eccezionale (tale sarebbe la l. 339/03 ove la si ritenesse ancora vigente) che si intenda mantenere in vita oltre il 13 agosto 2012 invocando dei “motivi imperativi di interesse generale” i quali non possano, in realtà, esser dimostrati esistenti (stante il complessivo regime, addirittura “lassista”, di cui sopra si diceva, delle compatibilità e incompatibilità previste per l’esercizio della professione forense). Pare, peraltro, evidente che se l’Italia vuol essere una Repubblica fondata sul lavoro (come l’art. 1 della Costituzione solennemente proclama) tali motivi imperativi di interesse generale non possono individuarsi in valutazioni di prudentissima prevenzione “ex ante” di sempre possibili conflitti di interesse (vedasi l’insegnamento di Corte costituzionale 189/2001). Ciò anche perchè è possibile, e doverosa per i Consigli degli Ordini territoriali, la verifica della ricorrenza in concreto dell’indipendenza di giudizio intellettule e tecnico in capo all’abilitato che abbia ottenuto l’iscrizione nell’albo professionale. Dunque, niente più impedimenti ex ante all’accesso alle professioni (compresa quella di avvocato) per presunzioni odiose di incompatibilità fondate solo sul fatto che si svolgono altri lavori.


In sostanza la abrogazione della l. 339/03 è uno dei più sicuri esiti delle operazioni di verifica (che dovranno interessare tutte le norme degli ordinamenti priofessionali) della sussistenza o meno di “motivi imperativi di interesse generale” che possano giustificare limitazioni all’accesso alle professioni e al loro esercizio.


Così come (in tema di leggi interpretative) la Corte costituzionale, con sentenza n. 311 del 2009 (vedasi anche Corte cost. 303/2011), ha riconosciuto che “fare salvi i «motivi imperativi d’interesse generale» che suggeriscono al legislatore nazionale interventi interpretativi … non puo’ non lasciare ai singoli Stati contraenti quanto meno una parte del compito e dell’onere di identificarli“, allo stesso modo, in relazione alla l. 339/03 si dovrà riconoscere che il legislatore e il governo, se avessero voluto -nel realizzare l’operazione di liberalizzazione di cui al d.l. 138/2011 e al DPR 137/2012– mantenere in vigore l’incompatibilità tra avvocatura e impiego pubblico a part time ridotto, avrebbero dovuto palesare quali fossero le ragioni d’interesse generale che ritenessero talmente imperative da imporre il sacrificio del diritto ad accedere liberamente alla professione.


Almeno, comunque, si dovrà riconoscere che solo la possibilità di un ragionevole rinvenimento (rinvenimento analogo a quello che, in altra materia, ha potuto fare Corte cost. 303/2011), nel complessivo ordinamento della professione forense, di motivi imperativi di interesse generale idonei a giustificare il detto sacrificio della libertà di lavoro professionale, potrebbe impedire un giudizio negativo su tale sacrificio, in termini di non necessità e sproporzione (o potrebbe impedire una fondata censura di incostituzionalità della l. 339/03).


Si dovrà pure ritenere che è evidente l’impossibilità di un tale ragionevole rinvenimento, nel complessivo ordinamento giuridico, di motivi imperativi di interesse generale, capaci di “salvare” la l. 339/03.


Ripeto: dal sistema complessivo delle compatibilità e incompatibilità alla professione forense risulta oggettivamente l’irragionevolezza del sacrificio del diritto al lavoro professionale imposto con la previsione dell’incompatibilità tra esercizio della professione forense e impiego pubblico a part time ridotto.


Risulta oggettivamente, in particolare, la totale assenza di motivi imperativi di interese generale che possano giustificare quel sacrificio.


S’è detto degli avvocati-ministri, degli avvocati-sottosegretari di Stato, degli avvocati-viceministri (tutti ammessi dalla l. 215/04); pure s’è detto degli avvocati-vice procuratori onorari, degli avvocati-G.O.T. e degli avvocati G.O.A.: l’ “immunità” di tutti costoro dal regime di incompatibilità già dimostra l’insostenibilità della scelta legislativa “di chiusura” verso i dipendenti pubblici a part time che vogliano fare anche l’avvocato.


Ma anche altre situazioni di ritenuta compatibilità con la professione di avvocato meritano d’essere analizzate a riprova della impossibilità logica e “storica” di continuare a ritenere giustificabile (e, dunque, non abrogata ad agosto 2012) la l. 339/03.


Aggiungiamo, innanzitutto, qualche considerazione sugli avvocati insegnanti. Pensiamo all’enorme numero dei dipendenti pubblici full time che sono stati ammessi a svolgere anche la professione di avvocato come conseguenza della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 22623/2010 (la quale, innovando consolidata giurisprudenza, ha ritenuto immuni dall’incompatibilità di cui all’art. 3 l. prof. forense anche tutti gli insegnanti, pure della scuola elementare, con la conseguenza che oggi, tra i dipendenti pubblici che hanno superato l’esame di Stato da avvocato, sono più numerosi quelli ammessi a fare l’avvocato rispetto a quelli, ritenuti “incompatibili”). Ebbene, non può sfuggire che gli avvocati-insegnanti sono titolari d’un rapporto di servizio ed inseriti in una complessa organizzazione non certo “anarchica” ma ben connotata da aspetti pure gerarchici. Pertanto l’indipendenza di tali avvocati-insegnanti è un “dover essere” e non una necessità ontologica. L’esistenza del rapporto di servizio rende la posizione dell’insegnante analoga a quella del dipendente pubblico non insegnante. Dunque, per i dipendenti pubblici a part time ridotto che non siano insegnanti il problema dell’indipendenza quale requisito per l’accesso alla professione di avvocato non dovrebbe, a rigore, trovare soluzione negativa, opposta a quella indicata per gli insegnanti-avvocati dalla sentenza della Cassazione n. 22623/2010.


Ma, soprattutto, pensiamo agli avvocati-mediatori e agli avvocati-soci di minoranza in società di capitali per l’esercizio della professione. L’ammissione di tali figure è stata operazione profondamente e definitivamente “eversiva” del tradizionale ordinamento forense (il quale, sia pure in maniera contraddittoria, già si caratterizzava, come detto, per l’ampia compatibilità tra esercizio della professione forense e altre attività lavorative). Le recenti modifiche, libertarie e pro-concorrenziali, dell’introduzione della mediaconciliazione obbligtoria e della società di capitali per l’esercizio della professione forense certamente vanno nel senso della massimizzazione delle opportunità d’offerta del servizio professionale d’avvocato, anche attraverso forme organizzative innovative, pur se potenzialmente pericolose per la salvaguardia di principi tuttora ritenuti fondamentali, quali l’indipendenza e l’autonomia dell’avvocato. (Peraltro, a proposito del contenuto dell’indipendenza da richiedere all’avvocato, si noti che la sentenza della Corte di giustizia nella causa Akzo Nobel Chemicals Ltd contro Commissione <sentenza del 14 settembre 2010, nella causa C-550/07>, ha chiarito che l’indipendenza dell’avvocato richiesta dal diritto dell’Unione europea non è una indipendenza assoluta che escluda la compatibilità con il lavoro dipendente. Alla stessa conclusione s’è giunti nel diritto interno col DPR 137/2012).


In ordine alla definitiva “rottura del sistema” ad opera della mediaconciliazione e della società di capitali per l’attività di avvocato si consideri:


1) in base alla disciplina della c.d. mediaconciliazione gli avvocati sono ammessi a fare il mediatore e subiscono una indubbia riduzione dell’autonomia e dell’indipendenza, per il necessario rispetto delle regole imposte dall’Organismo di mediazione (pubblico o privato che sia) e per la necessaria soggezione al suo potere “gestorio” dell’attività del mediatore-avvocato;


2) in tema di struttura delle società di capitali per l’esercizio della professione forense, all’art. 10, comma 4, lettera b), della l. 183/2011, s’è aggiunto: “In ogni caso il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale sociale dei professionisti deve essere tale da determinare la maggioranza dei due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci“. Ne è derivata indubbia riduzione dell’autonomia e dell’indipendenza dell’avvocato: costui potrà essere escluso dalla società o esser costretto ad abbandonarla; può, e non deve, opporre agli altri soci il segreto concernente le attività professionali a lui affidate; dipenderà economicamente dalle scelte d’asssegnazione di pratiche fatte da altri; ecc….


In definitiva, la mediaconciliazione obbligatoria e l’ammissione di società di capitali per l’esercizio della professione d’avvocato hanno delineato addirittura una radicale trasformazione della figura dell’avvocato (se inducendola o semplicemente registrando -e con grave ritardo- una evidente modificazione della società non rileva ai nostri fini). L’Avvocatura è, ormai, ancor più “plurale”; è più aperta a forme nuove di lavoro professionale legale, anche se trattasi di forme che rischiano di sacrificare la prevenzione del conflitto di interessi, nonchè l’autonomia e l’indipendenza del singolo professionista; è più attenta ad una maggiore “strutturazione” dell’offerta dei servizi professionali legali (in un quadro di accresciuta libertà nella scelta delle forme d’offerta del servizio che implica, o genera, varietà nella sostanza).


Esistono ormai -e con piena dignità, accanto alla figura tradizionale dell’ “indipendentissimo” avvocato- le nuove figure dell’avvocato mediatore (che dovrebbe esser riconosciuto sostanzialmente parasubordinato dell’Organismo di mediazione) e dell’avvocato socio di minoranza in una società di capitali che ha per oggetto l’esercizio della professione forense e perciò è iscritta all’albo (avvocato che ben può trovarsi in sostanziale posizione di parasubordinazione, potendo esser titolare anche dell’1% del capitale, al pari, magari, di decine di altri avvocati, mentre un socio non professionista può detenere addirittura il 33% del capitale).


L’eventuale necessità di affinare la regolazione di tali nuove figure professionali d’avvocato e limitare lo strapotere che le organizzazioni (organismo di mediazione e società di capitali) possono esercitare sul singolo avvocato non è certo argomento sufficiente per negare che il parametro di ragionevolezza, proporzionalità, necessità della l. 339/03 è oramai cambiato e deve portare a riconoscere sproporzionata, irragionevole, non necessaria e anticoncorrenziale la incompatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e esercizio della professione forense.


Anzi, la reale sussistenza e gravità di taluni rischi connaturati alla attuale disciplina della mediaconciliazione e delle società di capitali per l’esercizio della professione forense stanno a dimostrare che “il sistema” regolatorio accetta tali rischi ed esalta il ruolo dei Consigli degli Ordini quali controllori della ricorrenza in concreto di conflitti di interessi, mentre s’è abbandonato il metodo della prevenzione “a monte” di tali rischi attraverso la previsione di rigidissime incompatibilità.


Pertanto, seguendo il parere dell’Antitrust AS974 del 9 agosto 2012, deve ormai rispondersi diversamente, rispetto al passato, qualora si domandi se la specificità della professione forense, in relazione alla disciplina positiva italiana delle compatibilità e incompatibilità previste per la professione di avvocato, possa ragionevolmente far ritenere che il mantenimento o la reintroduzione dell’incompatibilità con l’impiego pubblico in part time ridotto, malgrado gli effetti restrittivi della concorrenza ad essi inerenti, risulti necessario al buon esercizio della professione, come oggi organizzata in Italia.


Ciò si deve ritenere anche alla luce del richiamo di Corte cost 189/01 che valorizzò il ruolo che in futuro avrebbe potuto avere una, allora solo ipotizzabile, ampia riforma del sistema delle compatibilità e incompatibilità forensi, per giudicare della legittimità costituzionale d’una legge che reintroducesse quell’incompatibilità che era stata abrogata dalla l. 662/96, art. 1, commi 56 e ss..


A fini interpretativi non paiono, peraltro, circostanze irrilevanti:


1) il fatto che la rimozione della assurda discriminazione del semplice impiegato pubblico rispetto al ministro, sottosegretario di Stato, viceministro, commissario del Governo (ammessi a fare l’avvocato dall’art. 2 lettera d) della l. 215/2004), costituisce strumento di valorizzazione delle professionalità legali interne alle amministrazioni pubbliche (poichè i dipendenti pubblici abilitati all’esercizio della professione forense non sono più spinti alle dimissioni per poter lavorare anche nel “libero Foro”, essendo invece sufficiente che ottengano la trasformazione del loro rapporto di lavoro da full time a part time ridotto);


2) il fatto che la detta rimozione dell’incompatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e professione forense sia una forma di incentivazione del part time nell’impiego pubblico. Il part time nel pubblico impiego, per scelta regolatoria cogente che l’Italia ha già fatto, va, infatti, incentivato. La Corte di giustizia, con sentenza depositata il 10/6/2010 nelle cause riunite C-395/08 e C-396/08 (che ha stabilito che le norme italiane sul c.d. part time verticale ciclico sono discriminatrici nel non prevedere il computo dei periodi non lavorati ai fini dell’anzianità assicurativa INPS) rammenta che ai sensi della direttiva 97/81 (intesa ad attuare l’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso il 6 giugno 1997 tra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale, vale a dire tra l’Unione delle confederazioni europee dell’industria e dei datori di lavoro <UNICE>, il Centro europeo dell’impresa pubblica <CEEP> e la Confederazione europea dei sindacati <CES>, riportato in allegato alla detta direttiva), recepita dal d.lgs. 61/00, tutti i paesi dell’Unione sono impegnati a promuovere il part time e a eliminare ogni discriminazione rispetto al lavoro a tempo pieno. Ricordo che il D.Lgs. 25-2-2000, n. 61, “Attuazione della direttiva 97/81/CE relativa all’accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES“, stabilisce all’art. 10: “Disciplina del part-time nei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. 1. Ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, le disposizioni del presente decreto si applicano, ove non diversamente disposto, anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, con esclusione di quelle contenute negli articoli 2, comma 1, 5, commi 2 e 4, e 8, e comunque fermo restando quanto previsto da disposizioni speciali in materia ed, in particolare, dall’articolo 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, dall’articolo 39 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, dall’articolo 22 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, e dall’articolo 20 della legge 23 dicembre 1999, n. 488“. La sentenza della Corte di Giustizia nelle cause riunite C-395/08 e C-396/08 deve, dunque, intendersi come monito al legislatore italiano ad agire per la salvaguardia e la promozione del part time anche nei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni. Si potrebbe, infatti, argomentare innanzi alla Corte di giustizia che la legge 339/03 (ove non la si giudicasse abrogata) disincentiva la adozione di rapporti di lavoro a part time nelle pubbliche amministrazioni e perciò è viziata da “illegittimità comunitaria” (altrimenti detto: osta a una tale legge il diritto dell’Unione Europea, nella specie la direttiva 97/81/CE, del Consiglio del 15 dicembre 1997, che doveva essere adegatamente attuata dall’Italia e non disattesa dalla l. 339/03). Ad abundantiam si rileva che anche Cass. 3871/2011 ha riconosciuto il ruolo degli accordi quadro fra UNICE, CEEP, CES, ove siano recepiti da direttive che vi danno attuazione e da decreti legislativi che a queste direttive a loro volta danno attuazione;


3) il fatto che la rimozione di incompatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto ed esercizio della professione forense rende più facile, attraverso il conseguente incremento delle domande di trasformazione dei rapporti full time in rapporti a part time, la riduzione dell’organico delle pubbliche amministrazioni imposta con la c.d. spending review;


4) il fatto che la medesima rimozione di incompatibilità, contrastando l’esodo delle migliori professionalità legali dalle pubbliche amministrazioni, è idonea a contrastare (toglie di mezzo la facile “scusa” della mancanza di adeguate professionalità legali nell’organico) i troppo numerosi affidamenti di consulenze e incarichi professionali a professionisti del diritto esterni alla pubblica amministrazione. Ricordiamo, al riguardo, che il presidente della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti, Luciano Pagliaro, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, ha descritto come un male endemico la pratica delle “consulenze facili” chieste dalle pubbliche amministrazioni ed ha segnalato che è in continuo aumento il numero delle citazioni in giudizio di funzionari e dirigenti di enti pubblici per l’esternalizzazione ingiustificata di numerosi incarichi;


5) il fatto che incentivare il part time nell’impiego pubblico è valido strumento per cercare di azzerare il doppio lavoro “in nero” dei dipendenti pubblici senza autorizzazione, fenomeno che (come si legge in un articolo apparso su ilsole24ore del 29/10/2011 dal titolo “Doppio lavoro da 8 milioni“) ha assunto dimensioni intollerbili, ed ha prodotto un “recupero” da parte dell’Ispettorato della Funzione Pubblica e della Guardia di Finanza di più di 8 milioni di euro, nel solo 2010, nei confronti di impiegati disonesti (e multe per i loro committenti per 23,9 milioni di euro).


Il D.P.R. 137/2012 ha onerato i Consigli degli Ordini di un difficile lavoro: un maggior controllo, in contraddittorio, delle incompatibilità realizzatesi in concreto. O meglio, secondo la nuova formulazione letterale, i Consigli degli Ordini dovranno verificare se si sia realizzata e in che grado (a questo grado commisurando la eventuale sanzione disciplinare, fino a giungere a sanzione espulsiva) una qualche carenza dell’indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnico, del professionista. Il DPR 137/2012, mantenendo e per molti aspetti consolidando il sistema ordinistico, ha in sostanza ritenuto (per usare le espressioni utilizzate dalla Corte di giustizia al punto 69 della sentenza che ha deciso le cause riunite C-94/04 e C-202/04) che le norme professionali relative all’esercizio delle professioni e in particolare le norme di organizzazione, di qualificazione, di deontologia, di controllo e di responsabilità siano (o debbano essere strutturate in modo da essere) di per se sufficienti per raggiungere gli obiettivi che il previgente sistema di compatibilità-incompatibilità perseguiva attraverso presunzioni odiose e rigorosissime (che impedivano l’iscrizione negli albi) di conflitti di interessi.


Scompaiono dall’ordinamento le norme “rozze” che pretendevano di prevenire il conflitto d’interessi attraverso l’estensione dell’incompatibilità a fattispecie “border line”. Con ciò scompaiono, finalmente, norme irrispettose, per eccesso di rigore, del criterio di proporzionalità-adeguatezza della regolazione.


Peraltro, troppo difficile s’era dimostrato, nei decenni, far funzionare nella pratica il “sistema rigorosissimo” delle incompatibilità tipizzate, “presuntive” e da verificare “a monte” dell’iscrizione all’albo.


Illusorio, se non ipocrita, era poi stato il prevedere che, per ottenere un serio vaglio delle posizioni di incompatibilità dei soggetti che chiedevano l’iscrizione all’albo, bastasse richiedere all’aspirante avvocato una dichiarazione sul proprio onore circa l’insussistenza di cause di incompatibilità.


In fondo, l’abrogazione della l. 339/03 ad opera del DPR 137/2012 costituisce attuazione degli insegnamenti della sentenza della Corte di Giustizia del 5/12/2006, resa nei procedimenti riuniti “Cipolla” (C-94/04) e “Macrino” (C-202/04), la quale, al punto 64, afferma:” A tal riguardo si deve osservare che la tutela, da un lato, dei consumatori, in particolare dei destinatari dei servizi giudiziali forniti da professionisti operanti nel settore della giustizia, e, dall’altro, della buona amministrazione della giustizia sono obiettivi che rientrano tra quelli che possono essere ritenuti motivi imperativi di interesse pubblico in grado di giustificare una restrizione della libera prestazione dei servizi (v., in tal senso, sentenze 12 dicembre 1996, causa C-3/95, Reisebüro Broede, Racc. pag. I-6511, punto 31 e giurisprudenza ivi citata, nonché 21 settembre 1999, causa C-124/97, Läärä e a., Racc. pag. I-6067, punto 33), alla duplice condizione che il provvedimento nazionale di cui si discute nella causa principale sia idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vada oltre quanto necessario per raggiungere l’obiettivo medesimo“), e al punto 69 aggiunge: “Il giudice del rinvio dovrà tuttavia verificare se alcune norme professionali relative agli avvocati, in particolare norme di organizzazione, di qualificazione, di deontologia, di controllo e di responsabilità siano di per sé sufficienti per raggiungere gli obiettivi della tutela dei consumatori e della buona amministrazione della giustizia“.


Ormai, come prevede il comma 5 ter dell’art. 3 del d.l. 138/2011, “Il Governo, entro il 31 dicembre 2012, provvede a raccogliere le disposizioni aventi forza di legge che non risultano abrogate per effetto del comma 5-bis in un testo unico da emanare ai sensi dell’ articolo 17-bis della legge 23 agosto 1988, n. 400“. Il Governo, dunque, dovrà redigere il testo unico delle sopravvissute incompatibilità “preventive” (capaci, cioè, impedire l’iscrizione all’albo) idonee a prevenire, in maniera ragionevole (cioè non troppo limitatrice della libertà di lavoro professionale) i conflitti di interessi.


Nell’elaborare tale testo unico delle incompatibilità sopravvissute alla “liberalizzazione” dell’agosto 2012 il governo dovrà attentamente verificare, riguardo a ciascuna delle previgenti e tipizzate incompatibilità all’esercizio di ciascuna professione (che è sempre e comunque -per logica elementare che voglia rispettare la natura umana e i diritti inviolabili dell’uomo- un esercizio a part time di quella professione):


1) se sia idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito (ad es. la tutela dei consumatori o, se si preferisce, dei clienti del professionista);


2) se vada oltre quanto necessario per il raggiungimento dello scopo, rivelandosi sproporzionata rispetto ad esso;


3) se ricorrano o meno ragioni imperative di interesse generale in grado di giustificare, in relazione alla primazia del diritto dell’Unione Europea, la restrizione della concorrenza nella prestazione del servizio professionale (essendo esso “naturalmente concorrenziale”, come riconosce Corte cost. 189/2001 con riguardo specifico alla professione di avvocato) che si determina attraverso il mantenimento nell’ordinamento di quella causa di incompatibilità. Infatti, come riconoscono le sentenze Wouters e Arduino della Corte di Giustizia (e come riconosce l’Antitrust, nel suo parere AS974 del 9 agosto 2012), solo ragioni imperative d’interesse generale possono giustificare una limitazione della concorrenza nel servizio professionale. Altrimenti si violerebbe il combinato disposto degli artt. 10 e 81 del T.C.E. (norme oggi riprodotte, dopo il Trattato di Lisbona, rispettivamente, nell’art. 4, comma 3, della versione consolidata del Trattato sull’Unione Europea <T.U.E.>, e nell’art. 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea <T.F.U.E.> ). Tali ragioni imperative si possono ritenere sussistenti solo se: 1) oggettivamente apprezzabili e non soltanto asserite, 2) non smentite dall’analisi complessiva della regolazione delle compatibilità e incompatibilità disegnate per l’esercizio della professione.


Il governo dovrà tenere a mente, nella redazione del detto testo unico, che per la Corte di giustizia, non solo l’attività dei notai ma di certo anche quella degli avvocati non è partecipazione diretta e specifica all’esercizio dei pubblici poteri. Sul punto si ricorda che, decidendo sei ricorsi della Commissione (appoggiata dal Regno Unito) per inadempimento nei confronti di vari Stati membri (Belgio causa C-47/08, Francia causa C-50/08, Lussemburgo causa C-51/08, Austria causa C-53/08, Germania causa C-54/08, Grecia causa C-61/08 e Portogallo causa C-52/08) che riservavano ai loro cittadini l’esercizio della professione notarile, la Corte di giustizia, con sentenza depositata il 24 maggio 2011, ha stabilito che la professione di notaio, anche se è certo che persegue obiettivi di interesse generale, non è per ciò solo partecipe dell’esercizio di poteri pubblici. DI CERTO IMPORTANTI SONO LE CONSEGUENZE DELLA DECIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA, E NON SOLO PER I NOTAI. Anche per gli avvocati le conseguenze delle sentenze della Corte di Giustizia del 24 maggio 2011 si faranno sentire. Peserà anche nei confronti degli avvocati il giudizio per cui: “Il fatto che l’attività dei notai persegua un obiettivo di interesse generale, ossia quello di garantire la legalità e la certezza del diritto degli atti conclusi tra privati, non è sufficiente, di per sé, a far considerare tale attività come partecipazione diretta e specifica all’esercizio dei pubblici poteri“; e soprattutto: “le attività svolte nell’ambito di diverse professioni regolamentate comportano di frequente l’obbligo, per le persone che le compiono, di perseguire un obiettivo del genere, senza che dette attività rientrino per questo nell’ambito dell’esercizio di pubblici poteri.


Non vedo, in primo luogo, come gli avvocati italiani possano sperare, a questo punto, di essere qualificati necessari partecipi del potere pubblico dell’amministrazione della giustizia, più di quanto potrebbero sperarlo i tecnici che nei processi (spesso con una efficacia sulle decisioni dei giudici ben maggiore di quella attinta dagli avvocati) svolgono la funzione di consulenti tecnici d’ufficio o di parte. A meno che non si voglia sperare che il Legislatore scriva una legge costituzionale che, sul presupposto (ormai da ritenere inesistente) della partecipazione dell’avvocato all’amministrazione della giustizia, fondi la tanto invocata tutela della mitica specialità (che in realtà si vorrebbe eccezionalità) dell’avvocatura! C’è da scommettere, però, che non passerà una modifica della Costituzione che “specifichi” in tal senso l’art. 24 della Costituzione.


In tale ottica il Governo dovrà reagire ad ogni tentativo di strumentalizzazione, in senso anticoncorrenziale, della risoluzione del Parlamento europeo del 23 marzo 2006 che ha riconosciuto l’indipendenza, l’assenza di conflitti di interessi e il segreto/confidenzialità quali valori fondamentali della professione forense e ha ribadito che la loro conservazione è di interesse pubblico. Il riconoscimento, in detta risoluzione, della “necessità di regolamenti a protezione di questi valori fondamentali per l’esercizio corretto della professione legale, nonostante gli effetti restrittivi sulla concorrenza che ne potrebbero derivare” non potrà giustificare regolamenti di protezione che abbiano effetti sproporzionati e ingiustificatamente limitanti la concorrenza. Allo stesso modo dovrà evitarsi ogni strumentalizzazione anticoncorrenziale e corporativa dell’altra affermazione fatta nella detta risoluzione del Parlamento europeo e cioè dell’affermazione per cui l’importanza di una condotta etica, del mantenimento della confidenzialità con i clienti e di un alto livello di conoscenza specialistica rende necessaria l’organizzazione di sistemi di autoregolamentazione, quali quelli oggi governati da organismi e ordini della professione legale.


In ordine alla garanzia sostanziale d’un accettabile livello di indipendenza dell’avvocato che sia anche dipendente pubblico a part time ridotto si ricordi che anche dopo l’abrogazione della legge 339/03 (la quale disponeva la non applicazione, con riguardo agli avvocati, dei soli commi 56, 56 bis e 57 dell’art. 1 della l. 662/96):


1) resterà operativa la garanzia di vaglio preventivo delle incompatibilità, da parte delle singole amministrazioni, con normativa generale e astratta e in particolare con decreto che valga a scongiurare “a monte” il rischio di conflitto di interessi dei propri dipendenti (art. 1, comma 58-bis della l. 662/96 per cui “Ferma restando la valutazione in concreto dei singoli casi di conflitto di interesse, le amministrazioni provvedono, con decreto del Ministro competente, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica, ad indicare le attività che in ragione della interferenza con i compiti istituzionali, sono comunque non consentite ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno…“);


2) resterà operativa nei confronti degli avvocati-part-time la norma del comma 58 dell’art. 1 della l. 662/96 che permette la valutazione in concreto, da parte della pubblica amministrazione, dei singoli casi di conflitto di interesse;


3) varrà ancora quel che scrisse Corte cost. 189/2001, al punto 6 del “considerato in diritto”: “non va ignorato il rilievo che, ai fini qui considerati, riveste anche il divieto posto dal comma 2-ter dell’art. 18 della legge n. 109 del 1994 (inserito dall’art. 9, comma 30, della legge n. 415 del 1998), il quale esclude che i pubblici dipendenti possano espletare, nell’ambito territoriale del proprio ufficio, incarichi professionali per conto delle amministrazioni di appartenenza. Con ciò ponendosi un divieto ancora più restrittivo di quello discendente dal comma 56-bis interpretato, infatti, nel senso che quest’ultimo riguardi esclusivamente gli incarichi professionali che non trovino assegnazione in base a procedure concorsuali di scelta adottate dall’amministrazione (così la già citata circolare 18 luglio 1997 della Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento della funzione pubblica).


In definitiva si può concordre col Consiglio di Stato, che nel suo parere 3169/2012 sulla bozza di D.P.R. di riforma delle professioni (poi divenuta, con modificazioni, DPR 137/2012) aveva suggerito di lasciare alla pubblica amministrazione la valutazione di eventuali incompatibilità, senza, dunque, prevederle in disposizioni di rango primario dettate in tema di liberalizzazione delle professioni (nello stesso senso, peraltro s’è costantemente espresso l’Antitrust, a partire dalla segnalazione AS223 del 06/12/2001).


Il Consiglio di Stato, nel suo parere n. 3169 del 10 luglio 2012, in particolare ha formulato interessanti rilievi riguardo alla compatibilità del tirocinio con l’impiego pubblico ma, nel farlo, ha espresso importanti valutazioni circa la necessità di escludere l’incompatibilità per tutti i casi di in cui il professionista, anche oltre la fase del tirocinio, svolga anche un lavoro pubblico a part time. Si legge nel corpo della considerazione n. 6, a pag. 14: “Il comma 5 del medesimo articolo (si tratta dell’art. 6 dello schema di DPR, dedicato alla pratica professionale) stabilsce l’incompatibilità (assoluta) con qualunque rapporto di impiego pubblico e la compatibilità (relativamente alla possibilità di garantire un effettivo ed adeguato tirocinio) con un contestuale lavoro subordinato privato. Se la ratio dell’incompatibilità è quella rappresentata dall’amministrazione nella relazione (“in funzione dell’effettività del tirocinio”), non si comprende la differenziazione tra impiego pubblico e impiego privato. In relazione ad altre ragioni, quali quelle degli obblighi che gravano sul pubblico dipendente e sulla possibilità di evitare situazioni di conflitto di interessi, appare preferibile lasciare ai singoli ordinamenti delle pubbliche amministrazioni la valutazione di tale profilo. Peraltro l’incompatibilità assoluta si applica pure al part time e preclude anche che la frequenza dei corsi di formazione o di specializzazione possa essere valutata ai fini del tirocinio per i pubblici dipendenti (corsi che molto spesso i pubblici dipendenti possono frequentare, e anzi, in taluni casi, può essere interesse della stessa amministrazione di appartenenza qualificare maggiormente il proprio personale). Occorre, pertanto, eliminare la previsione dell’incompatibilità“.


(Altalex, 21 settembre 2012. Articolo di Maurizio Perelli)

 

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