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I pagamenti svolti prima e dopo la dichiarazione di fallimento: i presupposti e l’onere probatorio delle due azioni.

L’azione revocatoria ex art. 67, comma 2, L.F.

L’art. 67, comma 2, L.F. prevede la revocatoria dei pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, degli atti a titolo oneroso e di quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, compiuti entro i sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento, qualora il curatore dimostri la conoscenza dell’altra parte dello stato d’insolvenza del debitore.

Alla luce di tale disposizione, i pagamenti effettuati in favore della banca, nei sei mesi antecedenti rispetto alla dichiarazione di insolvenza, possono essere ritenuti revocabili, in quanto atti estintivi di debiti scaduti.

Tipico esempio di operazione revocabile è quella del prelievo, da parte della banca e dal bonifico del cliente, del rimborso del proprio finanziamento: vantando la banca un credito relativo alla restituzione del prestito erogato, la suddetta operazione rappresenta il pagamento di un debito liquido e scaduto dell’impresa poi dichiarata insolvente, che è “avvenuto con denaro della impresa a detrimento degli altri creditori concorrenti” (Tribunale di Ferrara, n. 659/2012).

Quanto all’onere probatorio, il Fallimento deve dimostrare il presupposto soggettivo della scientia decoctionis in capo al creditore, vale a dire la conoscenza dello strato di insolvenza del debitore.

L’indagine che deve essere compiuta consiste nel riscontrare se il creditore, sulla base degli elementi conosciuti o conoscibili a sua disposizione, non poteva non rendersi conto dello stato di dissesto economico in cui versava il debitore.

Secondo costante giurisprudenza, in relazione all’elemento soggettivo della scientia decoctionis della revocatoria ex art. 67, comma 2, L.F., la prova della conoscenza, da parte del creditore, dello stato di insolvenza del debitore poi fallito, può legittimamente fondarsi su elementi indiziari caratterizzati dai requisiti della gravità, precisione e concordanza ex art. 2729 c.c.

Nella prassi, è, infatti, raro che la curatela fornisca elementi di prova diretta della scientia decoctionis, come la confessione o prove che consentano di riscontrare che l’accipiens era stato informato dal solvens della crisi dell’impresa.

Ed infatti, sono ammesse presunzioni che dimostrino non “un’astratta conoscibilità oggettiva accompagnata da un presunto dovere di conoscere, richiedendosi la presenza di concreti collegamenti di quel creditore con i sintomi conoscibili dello stato di insolvenza” (Tribunale di Milano, sez. II, 18/07/2019, n. 7276).

Per ritenere sussistente il requisito soggettivo della conoscenza dello stato di insolvenza, assume valore la condizione professionale del soggetto che ha beneficiato delle somme.

Pertanto, la giurisprudenza, di legittimità e di merito, riconosce agli indizi tipici della conoscenza dell’insolvenza una valenza rafforzata e maggiormente intensa, qualora l’accipiens sia un istituto di credito, che, come tale, è dotato di tutti gli strumenti, privilegiati ed efficaci, diretti a garantirgli piena e tempestiva cognizione della situazione finanziaria del proprio cliente (Tribunale di Bergamo, 28 aprile 2014; Cass. Civile, n. 3081/2018).

La possibilità per una banca di avere informazioni sulla situazione patrimoniale dei propri debitori in misura senza dubbio superiore a quella comune, e le specifiche conoscenze tecniche a sua disposizione, possono valere a renderla edotta che eventuali (anche minimi) segni esteriori di crisi sono in realtà sintomi di insolvenza; tuttavia, non servono a dimostrare che una banca, in quanto tale, ha necessariamente la conoscenza effettiva dello stato di insolvenza della propria debitrice (cfr. Cassazione Civile, 12 maggio 1998, n. 4765; Cassazione Civile n. 7304/1997).

Dunque, la giurisprudenza valuta con particolare rigore le presunzioni relative alla scientia decoctionis, quando parte convenuta è un Istituto di credito, trattandosi di un “operatore economico tecnicamente qualificato, dotato di speciale sensibilità critica e in condizione di apprezzare segnali che per altri operatori avrebbero scarso significato” (Tribunale di Mantova, ordinanza del 29/12/2017).

La ratio è da individuarsi nel fatto che la banca, generalmente, rileva con più attenzione e con più prudenza di altri operatori economici gli elementi che possono denotare una crisi imprenditoriale, dovendo preoccuparsi del recupero del credito erogato, ma anche perché svolgendo sovente la Banca un servizio di cassa ed avendo a disposizione i bilanci delle società, può valutare prima e meglio di chiunque altro quelle situazioni di illiquidità e di difficoltà economica tali da far presumere uno stato di insolvenza (Cass. Civile, n. 26061/2017).

In ogni caso, è sempre richiesta la prova concreta degli elementi conosciuti o conoscibili che nello specifico caso rendano desumibile la conoscenza dello stato di insolvenza dei debitori falliti, non essendo sufficiente allegare la mera qualifica soggettiva del convenuto.

In caso di accoglimento dell’azione, al Fallimento spetteranno anche gli interessi legali dalla data della domanda giudiziale, mentre risulta esclusa la rivalutazione monetaria.

La spiegazione è da rinvenirsi nel fatto che il negozio oggetto di revocatoria fallimentare è dotato di causa lecita e la sua inefficacia sorge solo per effetto dell’accoglimento dell’azione; poiché tale azione ha natura costitutiva e ha ad oggetto una somma liquida di denaro, il relativo debito restitutorio ha natura di debito di valuta, da maggiorarsi dei soli interessi al saggio legale a far data dalla domanda giudiziale, salva la prova del maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c.

L’azione ex art. 44 L.F.

Per i pagamenti successivi al fallimento si applica l’art. 44 L.F., che prevede la declaratoria di inefficacia di tutti gli atti e pagamenti eseguiti ed anche ricevuti dal fallito dopo la sentenza dichiarativa di fallimento.

Il fallimento del correntista determina ipso iure lo scioglimento del contratto di conto corrente bancario e la cristallizzazione dei rapporti di debito/credito tra le parti (Cass. Civile, n. 19325/2013).

Tale declaratoria opera di diritto, senza un particolare onere probatorio a carico del Fallimento, che deve limitarsi a dare atto dell’avvenuto pagamento a seguito della dichiarazione di fallimento.
Dunque, il curatore deve soltanto dare prova dell’esistenza dei pagamenti che si assumono effettuati e la loro collocazione cronologica (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 8 giugno 2011).

L’onere probatorio incombente sul Fallimento è, quindi, meno rigoroso rispetto a quello richiesto per l’instaurazione della revocatoria fallimentare di cui all’art. 67 L.F.: l’azione ex art. 44 L.F., infatti, “prescinde sia dalla individuazione del cd. periodo sospetto sia dalla individuazione della scientia decoctionis” (Tribunale di Roma, 19/06/2013).

Una volta emessa la pronuncia dell’autorità giudiziaria – che ha natura meramente dichiarativa – l’inefficacia dei pagamenti opera di diritto.

L’inefficacia ex art. 44 L.F. è da ravvisarsi anche in caso di accreditamento di una somma di denaro da parte di una banca a favore del correntista beneficiario e di contemporaneo addebito della stessa somma sul conto del soggetto che ne ha fatto richiesta: secondo la giurisprudenza, al fine di verificare l’anteriorità o la posteriorità dell’operazione bancaria rispetto alla dichiarazione di fallimento del beneficiario stesso, è rilevante la cosiddetta “data contabile”, i.e. quella in cui è avvenuta l’annotazione dell’accredito sul conto.

Ne consegue che se l’accreditamento risulta successivo alla dichiarazione di fallimento, lo stesso deve ritenersi inefficace nei confronti dei creditori ai sensi dell’art. 44 L.F., con la conseguente “impossibilità per la banca di operare alcun conguaglio con sue eventuali precedenti ragioni” (Tribunale di Roma, n. 6842/2017).

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