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Premessa

Com’è noto, la riforma Cartabia è animata dall’obiettivo di ridurre, almeno del 25%, i tempi di svolgimento dei processi penali. Avendo di mira tale obiettivo, l’intervento riformatore ha interessato anche i riti speciali – e per quanto rileva in questa sede il patteggiamento – che, invero, a partire dall’entrata in vigore del codice del 1988, hanno avuto scarso successo, riuscendo a deflazionare in minima parte il carico giudiziario dibattimentale.

Nell’ottica di incrementare l’attrattività del rito dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, il D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 – attuativo della delega contenuta nella L. 27 settembre 2021, n. 134 – è intervenuto su vari fronti.

Anzitutto, è stata ampliata la materia negoziabile, che d’ora in poi potrà estendersi anche alle pene accessorie e alla confisca (facoltativa); nel contempo sono stati ridotti gli effetti extra-penali della sentenza di patteggiamento, di modo che questa, come prevedeva la legge-delega, non abbia «efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi».

A queste si affiancano ulteriori modifiche di raccordo, che recepiscono interventi di natura sia processuale che sostanziale. Tra queste si segnalano la possibilità di richiedere il patteggiamento, nei casi di citazione diretta a giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica, in un’inedita udienza predibattimentale, ma anche l’avviso all’indagato che opti per il rito de quo sulla possibilità di accedere a programmi di giustizia riparativa, ed infine la possibilità di sostituire la pena detentiva con la semilibertà o con la detenzione domiciliare (entro i limiti di quattro anni), oppure con il lavoro di pubblica utilità (entro il limite di tre anni) o, ancora, con la pena pecuniaria (entro il limite di un anno).

Sono, invece, rimasti immutati i presupposti oggettivi e soggettivi per l’accesso al rito che, invece, formavano oggetto di emendamento nei progetti di riforma della giustizia Bonafede e Lattanzi e che avrebbero sicuramente accresciuto l’attrattività del patteggiamento. Ed infatti, non è stato elevato sino a otto anni il tetto massimo della pena in concreto patteggiabile, così come non è stato sfoltito l’elenco delle fattispecie ostative al rito in esame e neppure è stata innalzata fino alla metà (anziché fino a un terzo) la soglia di riduzione della pena propria del rito.

Il “nuovo” accordo sulle pene accessorie

Il primo elemento di novità introdotto dalla riforma Cartabia è proprio quello di aver previsto la negoziabilità delle pene accessorie, la cui applicazione, in conseguenza del c.d. patteggiamento “allargato”, poteva rivelarsi, a seconda dei casi, maggiormente afflittiva rispetto alla pena principale.

In tale prospettiva, l’art. 1, comma 10, lett. a) n. 1, L. n. 134/2021, ha conferito delega all’esecutivo al fine di «prevedere che, quando la pena detentiva da applicare supera i due anni, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata».

Il legislatore delegato, nell’attuare i principi e i criteri direttivi, ha inserito un ulteriore periodo al comma 1 dell’art. 444 c.p.p., in base al quale «l’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis».

Per prima cosa si comprende come l’interpolazione riguardi le sole ipotesi di patteggiamento “allargato”, dato che, com’è noto, nei casi in cui la pena concordata venga contenuta entro i due anni non è prevista l’applicazione di pene accessorie, salvo che per alcuni reati contro la pubblica amministrazione (art. 444, comma 3-bis, c.p.p.).

L’estensione dell’accordo all’an (salvo i casi in cui l’applicazione sia obbligatoria) e al quantum delle pene accessorie, nei casi in cui la pena concordata superi i due anni, è sicuramente finalizzato a rendere più appetibile la scelta del rito de quo, nel senso che permette di conseguire col patteggiamento allargato uno dei benefici tipici del suo omologo in forma tradizionale. Inoltre, è un intervento che rafforza le garanzie dell’imputato poiché riduce la discrezionalità del giudice, evitando la prassi in base alla quale l’organo giudicante poteva applicare pene accessorie che non rientravano nell’accordo tra le parti (v. Cass. pen., Sez. IV, 3/7/2019, n. 28905, Rv. 276374).

La clausola di riserva «salvo quanto previsto dal comma 3-bis» è finalizzata a evitare che l’accordo sulle pene accessorie possa comportare un’elusione della rigida disciplina, introdotta con la c.d. legge “spazzacorrotti”, relativamente ad alcuni reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. È noto, infatti, che la condanna per talune di queste fattispecie criminose comporta l’applicazione di pene accessorie, che possono essere stabilite in misura fissa o in misura variabile (nelle ipotesi di lieve entità o di condanna fino a due anni).

Ad ogni buon conto, anche in caso di patteggiamento allargato, l’accordo può vertere sull’applicazione delle pene accessorie che, per effetto dell’attenuante di cui all’art. 323-bisc.p., possono avere una durata compresa tra uno e cinque anni.

Resta, però, un aspetto problematico, nel senso che l’accordo tra le parti, ora come in passato, non può vertere sulle sanzioni amministrative accessorie, che conseguono di diritto alla commissione del reato e possono essere disposte d’ufficio dal giudice.

Ed infatti, in base all’art. 24, L. 24 novembre 1981, n. 689, «Qualora l’esistenza di un reato dipenda dall’accertamento di una violazione non costituente reato, e per questa non sia stato effettuato il pagamento in misura ridotta, il giudice penale competente a conoscere del reato è pure competente a decidere sulla predetta violazione e ad applicare con la sentenza di condanna la sanzione stabilita dalla legge per la violazione stessa».

La negoziabilità della confisca facoltativa

Rispetto alla legislazione previgente, altro fondamentale elemento di novità è dato dalla possibilità di estendere l’accordo tra l’imputato e il pubblico ministero anche alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto o ammontare.

Infatti, l’art. 25, comma 1, lett. a) del decreto legislativo ha interpolato l’art. 444 c.p.p., e, pertanto, «L’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice […] di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato».

La previsione riguarda tutti i casi di patteggiamento: in modo particolare, l’utilizzo dell’espressione «in tutti i casi di applicazione della pena su richiesta», come chiarito nella relazione al d.d.l. n. A.C. 2435 e come ricordato dalla Relazione di accompagnamento al decreto legislativo in commento (p. 130), sottende la negoziabilità della confisca di tipo facoltativo, sia nei casi di “patteggiamento tradizionale” (per pene fino a due anni) che in quelli di patteggiamento “allargato” (per pene da due anni e un giorno fino a cinque anni).

È noto, infatti, che prima dell’ultimo intervento del legislatore, la confisca, seppur facoltativa, non era evitabile neppure nei casi di patteggiamento “tradizionale”, trattandosi dell’unica misura di sicurezza che non beneficia della non applicazione a seguito della sentenza di patteggiamento.

Restano escluse dalla previsione tutte le altre forme di confisca penale, a natura obbligatoria, previste dall’ordinamento, giacché, in caso contrario, verrebbe meno la loro ragione ispiratrice di prevedere l’ablazione dei beni in presenza dei dovuti presupposti.

La richiesta di patteggiamento in udienza predibattimentale

Nell’ottica di deflazionare il ruolo del giudice dibattimentale, con la riforma Cartabia, in attuazione della delega di cui all’art. 1, comma 12, L. n. 134/2021, nell’ambito dei procedimenti di cui all’art. 550 c.p.p., è stata introdotta una nuova udienza predibattimentale, in camera di consiglio, innanzi ad un giudice diverso da quello davanti al quale, eventualmente, dovrà celebrarsi il dibattimento.

La funzione della nuova udienza predibattimentale è quella di consentire il compimento di alcune attività prodromiche al dibattimento vero e proprio, ed in particolare la costituzione delle parti, la prospettazione delle questioni preliminari e l’accesso ai procedimenti speciali di natura premiale (quindi anche all’applicazione della pena su richiesta delle parti) oppure di permettere al giudice di pronunciare la sentenza di non luogo a procedere «perché gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna».

Al fine di adeguare le disposizioni esistenti alla nuova sede per la richiesta del rito, l’art. 1, comma 10, lett. a) n. 3 della legge delega, ha indicato tra i principi e i criteri direttivi, quello di «assicurare il coordinamento tra l’articolo 446 del codice di procedura penale e la disciplina dettata in attuazione del comma 12 del presente articolo, riguardo al termine per la formulazione della richiesta di patteggiamento».

La delega trova attuazione nell’inedito art. 554-ter, comma 2, c.p.p., ove si prevede che l’istanza di patteggiamento (ma anche degli altri procedimenti speciali a carattere premiale) può essere proposta, «a pena di decadenza, prima della pronuncia della sentenza di non luogo a precedere di cui al comma 1», che il giudice emette oltre che nelle ipotesi tradizionali (ossia se sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita, se risulta che il fatto non è previsto dalla legge come reato ovvero che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che l’imputato non è punibile per qualsiasi causa) anche quando «gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna».

Entro lo stesso termine – ossia prima della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere – quando l’imputato e il pubblico ministero concordano l’applicazione di una pena sostitutiva di cui all’articolo 53 della L. n. 689/1981, il giudice, se non è possibile decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente.

Considerando che la riforma Cartabia ha ampliato il catalogo dei reati che seguiranno il rito con citazione diretta a giudizio, ex art. 550 c.p.p., l’inedita udienza predibattimentale potrebbe divenire la sede d’elezione per l’applicazione della pena concordata dalle parti. Ed infatti, la stragrande maggioranza dei reati enumerati all’art. 550 c.p.p. è punita con una pena edittale che, al netto della riduzione fino ad un terzo propria del rito, potrebbero rientrare nell’ambito del “patteggiamento”.

La richiesta di applicazione pena nei casi di modifica dell’imputazione e di nuove contestazioni in dibattimento

L’art. 1, comma 10, lett. e), L. n. 134/2021, ha conferito delega al Governo al fine di «coordinare la disciplina delle nuove contestazioni in dibattimento con la disciplina dei termini per la presentazione della richiesta di procedimenti speciali».

In attuazione della delega, l’art. 30, comma 1, lett. l) ed m) del D.Lgs. n. 150/2022, ha emendato la disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali, mantenendo una struttura differente a seconda che l’imputato sia presente (art. 519 c.p.p.) oppure «non presente» (art. 520 c.p.p.) al processo.

Il riscritto art. 519 c.p.p. declina i diritti informativi e le facoltà azionabili dall’imputato nei casi di modifica dell’imputazione o di nuove contestazioni dibattimentali, precisando che «nei casi previsti dagli articoli 516, 517 e 518, comma 2, salvo che la contestazione abbia per oggetto la recidiva, il presidente informa l’imputato che può chiedere un termine per la difesa e formulare richiesta di giudizio abbreviato, di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 o di sospensione del procedimento con messa alla prova, nonché di richiedere l’ammissione di nuove prove».

Si tratta del riconoscimento di diritti “informativi” in capo all’imputato, che risultano propedeutici all’esercizio delle facoltà riconosciute dal secondo comma, ossia la possibilità per l’imputato di ottenere un termine a difesa, di richiedere nuove prove e – per quanto rileva in questa sede – chiedere l’applicazione della pena su richiesta delle parti (ma anche il giudizio abbreviato o la sospensione del procedimento con messa alla prova).

L’intervento legislativo tiene conto dei più recenti arresti della Corte costituzionale che, sia con riferimento alle contestazioni c.d. “tardive o patologiche” che a quelle c.d. “fisiologiche”, ha ribadito che la scelta dei riti alternativi rappresenta per l’imputato «una delle più qualificanti espressioni del suo diritto di difesa» (Ex multis cfr. Corte cost., 11/2/2020, n. 14; Corte cost. 11/04/2019, n. 82; Corte cost., 05/07/2018, n. 141).

Con specifico riguardo alle contestazioni per l’imputato non presente al processo, il novellato art. 520 c.p.p. – che tende a coordinare l’intervento con la nuova disciplina del processo in absentia – dispone che il pubblico ministero, qualora intenda contestare i fatti o le circostanze indicati negli articoli 516 e 517 all’«imputato non presente fisicamente in udienza», chiede al presidente che la contestazione sia inserita nel verbale del dibattimento e che il verbale sia notificato per estratto all’imputato, «con l’avvertimento che entro l’udienza successiva può formulare richiesta di giudizio abbreviato, di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 o di sospensione del procedimento con messa alla prova».

Il controllo del giudice

Ad un’estensione dell’ambito della materia negoziabile non poteva che corrispondere un ampliamento dei punti in relazione ai quali il giudice investito della richiesta di applicazione pena è chiamato a esercitare il proprio controllo.

In siffatta prospettiva è stato interpolato il comma 2 dell’art. 444, con l’aggiunta di due incisi che recepiscono l’ampliamento delle materie sulle quali, in base al comma 1, è possibile raggiungere l’accordo. In particolare, il giudice – qualora sulle rispettive materie le parti si siano accordate – dovrà analizzare anche «le determinazioni in merito alla confisca» e, all’esito di tutto, verificare che siano «congrue le pene indicate».

L’aggiunta dei suindicati incisi al comma 2 dell’art. 444 c.p.p. funge da raccordo con le modifiche di cui al comma 1, riguardanti, rispettivamente, l’accordo sull’applicazione delle pene accessorie e sulla confisca.

Infatti, come si legge nella Relazione illustrativa del decreto legislativo in commento, si ritiene che il passaggio dalla forma singolare (“congrua la pena indicata”) a quella plurale (“congrue le pene indicate”) sia idoneo a ricomprendere le pene accessorie.

Da un punto di vista sostanziale, quindi, il controllo che il giudice è chiamato ad esercitare è rimasto lo stesso, soltanto che, qualora l’accordo tra le parti si sia esteso anche sulle pene accessorie e/o sulla confisca, il magistrato, oltre ad escludere di dover pronunciare una sentenza ai sensi dell’art. 129 c.p.p., a dover verificare che la qualificazione giuridica del fatto e il bilanciamento delle circostanze siano corretti, dovrà altresì analizzare «le determinazioni in merito alla confisca» e, all’esito dell’intero percorso, assicurarsi che siano «congrue le pene indicate».

Gli effetti extra-penali della sentenza di patteggiamento

Sempre nell’ottica di accrescere l’attrattività del procedimento speciale in esame, la delega ha inteso limitare gli effetti extra-penali della sentenza di patteggiamento, in modo tale che questa «non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare» ma anche «in altri casi».

In tale prospettiva, il legislatore delegato ha interpolato l’art. 445, comma 1-bis, c.p.p., espungendo l’inciso «salvo quanto previsto dall’articolo 653». In ragione di ciò non si è reso necessario intervenire su tale ultima disposizione citata, che, in linea generale, attribuisce efficacia di giudicato, nel giudizio disciplinare, sia alle sentenze di assoluzione (comma 1) che a quelle di condanna (comma 1-bis).

L’intervento riformatore però risulta più complesso, dal momento che – come suggerisce la stessa relazione illustrativa del decreto legislativo – è stata adottata «una formulazione normativa articolata su due livelli».

Il primo livello di attuazione è quello che si rinviene nel periodo di apertura dell’art. 445, comma 1-bis, c.p.p., inserito dall’art. 25, comma 1, lett. b), del decreto legislativo in commento: è previsto, infatti, che la sentenza di patteggiamento, anche se pronunciata dopo la chiusura del dibattimento (ossia dopo aver assunto le prove in contraddittorio), non può avere «efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile».

In questo modo viene sancita l’inefficacia (quale giudicato) e l’assoluta irrilevanza probatoria della sentenza di patteggiamento in ogni procedimento giurisdizionale diverso da quello penale: gli «altri casi» ai quali si fa riferimento nella delega vengono, quindi, individuati nei giudizi che si svolgono di fronte al giudice civile, a quello amministrativo, a quello tributario e a quello della responsabilità erariale, in tutte le circostanze in cui il fatto storico oggetto della sentenza di patteggiamento possa avere una qualche rilevanza in quelle sedi.

Non è possibile negare che, ad una prima lettura, paia ravvisarsi un eccesso di delega. Ed infatti se la direttiva si limita ad indicare la necessità di prevedere che la sentenza di applicazione della pena «non abbia efficacia di giudicato», è evidente che l’irrilevanza probatoria che la norma dispone – che di per sé è qualcosa di diverso e ulteriore rispetto alla rilevanza di giudicato – non trovi aggancio alcuno nella delega (cfr. A. Chelo – F. Demartis, Il patteggiamento secondo Cartabia, in (a cura di) G. Spangher, La riforma Cartabia; codice penale – codice di procedura penale – giustizia riparativa, Pisa, 2022, p. 413 ss.). Prevedere, infatti, che la sentenza di applicazione della pena «non può essere utilizzata a fini di prova» significa impedire qualsiasi sua valutazione a fini probatori: ciò che va oltre l’esclusione degli effetti propri della cosa giudicata.

Tale soluzione legislativa sembra però finalizzata a porre fine a quell’interpretazione, sia dottrinale che giurisprudenziale, che vedeva comunque nella sentenza di patteggiamento un elemento probatorio fondamentale, capace addirittura di determinare una sorta di inversione dell’onere della prova (cfr. F. Peroni, La sentenza di patteggiamento, Padova, 1999, p. 134; Cass. civ. sez. Unite, 31/7/2006, n. 17289, Rv. 591413).

Il secondo periodo del nuovo art. 445, comma 1-bis, c.p.p. attua la delega – come riferito dalla stessa Relazione illustrativa – ad un livello ulteriore e differente, relativo, più in generale, agli effetti extra-penali della sentenza.

Al riguardo viene previsto che «se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’art. 444, comma 2, alla sentenza di condanna».

In questo modo, la nuova previsione potenzia l’appeal del rito, facendo venir meno l’equiparazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna, in ambito extra-penale, nei casi in cui non siano state applicate pene accessorie.

Ne consegue che, la “riduzione” degli effetti extra-penali della sentenza di patteggiamento si sostanzia nell’impossibilità di equiparazione della stessa alla sentenza di condanna e, dunque, nella non riferibilità alla prima di quelle norme extra-penali che comportano ulteriori effetti negativi nei confronti del condannato (in questi termini A. Chelo – F. Demartis, Il patteggiamento secondo Cartabia, cit., p. 413 ss.)

Conclusioni

Il patteggiamento si appresta a compiere qualche timido passo in avanti rispetto al passato, anche se non può negarsi che la delega iniziale lasciava intuire un intervento di più ampia portata. Non ha avuto seguito l’innalzamento da cinque a otto anni del limite di pena in concreto patteggiabile (Bonafede), così come non è stato limato il novero dei reati ostativi al rito speciale in esame (Lattanzi) e non ha avuto seguito neppure l’innalzamento della riduzione di pena propria del rito fino alla metà per delitti.

Certo, la negoziabilità delle pene accessorie e della confisca facoltativa così come la riduzione degli effetti extra-penali della sentenza di patteggiamento rappresentano un significativo passo in avanti. Ma la spinta riformatrice è stata carente di coraggio e alla fine hanno prevalso le esigenze securitarie che, notoriamente, sono difficili da scardinare. Senza troppi patemi può affermarsi che è appena sfuggita un’imperdibile occasione per riformare il rito.

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