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Il ricorso al contratto di comodato senza determinazione di durata, soprattutto in questo momento storico, rappresenta uno strumento sempre più spesso utilizzato da genitori o parenti, come soluzione al problema abitativo in favore delle giovani coppie che contraggono matrimonio.

Altrettanto frequentemente accade che, in caso di successivo giudizio di separazione dei coniugi, il giudice pronunci il provvedimento di assegnazione dell’immobile in favore del coniuge affidatario dei figli che, nella gran parte dei casi, è l’ex moglie del comodatario. Da qui diverse problematiche circa l’individuazione della disciplina applicabile, in tali ipotesi, al recesso del comodante.

Ebbene, il lavoro che segue, dopo una concisa trattazione della disciplina civilistica dell’istituto del comodato, si propone di ricostruire e di esporre le posizioni giurisprudenziali succedutesi nel tempo, circa fattispecie similari a quella cui sopra si è fatto riferimento.

Ci si è soffermati, in particolare, sulla pronuncia a S.U. della Cassazione n. 13603 del 2004 (con cui il Supremo Giudice, per molto tempo ha escluso, in quei casi, la configurabilità del c.d. comodato precario e, dunque, del recesso ad nutum del comodante), per poi giungere alla analisi della recente ordinanza della III Sez. che, dopo aver esaminato  le perplessità emerse -tanto in dottrina quanto in giurisprudenza- in merito al principio di diritto cristallizzato dalla suddetta Pronuncia, condividendole, ha ritenuto opportuno rimettere ancora una volta la questione dinanzi alle Sezioni Unite, affinché si rimediti l’orientamento interpretativo precedentemente delineato.

L’ultima parte dell’elaborato, poi, rileva le contraddizioni delle critiche mosse alla Sent. n. 13603 del 2004 evidenziando la necessità, piuttosto che di rimedi interpretativi ad opera dei Giudici, di un intervento legislativo che preveda espressamente la fattispecie dell’assegnazione della casa familiare disposta in favore di uno dei coniugi nell’ambito del giudizio di separazione in quei casi in cui l’immobile sia stato precedentemente oggetto di comodato da parte del suo titolare affinché fosse destinato ad abitazione familiare del comodatario, disciplinandone compiutamente l’esercizio della facoltà di recedere delle parti.

Invero, solo così facendo si garantirebbe una effettiva tutela del diritto di proprietà del comodante.

1. Nozione e natura giuridica del contratto di comodato

Il comodato è il contratto con il quale una parte (comodante) consegna all’altra (comodatario) una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta (art. 1803 c.c.). Trattasi di un contratto reale, come si evince dalla stessa definizione del codice civile che, appunto, parla di consegna e non di obbligo di consegnare[i].

Prima della consegna il rapporto che si instaura tra le parti è, a seconda dei punti di vista, di pura cortesia[ii] o, ancora in itinere, con effetti prodromici conservativi[iii], ed è solo la dazione della cosa che permette, rispettivamente, la giuridicizzazione del vincolo o il perfezionarsi della fattispecie, cosicché, in questo secondo caso, il comodante risponderebbe a titolo di responsabilità precontrattuale se, raggiunto l’accordo, non eseguisse la traditio[iv].

Il contratto di comodato è altresì tradizionalmente reputato tipico esempio di contratto unilaterale, in considerazione del fatto che esso si caratterizza per la obbligazione restitutoria a carico del comodatario[v].

L’art. 1803 lo qualifica, inoltre, come essenzialmente gratuito: la stipula di un corrispettivo è incompatibile con lo schema causale del comodato[vi] che è improntato, per l’appunto, a cortesia e fiducia e nasce dalla volontà del comodante di sopperire ad una temporanea esigenza altrui[vii]. E’ tuttavia possibile che le parti fissino un compenso, purché modestissimo; così come è plausibile un comodato modale, laddove l’onere non abbia carattere di corrispettività, come nel caso di ospitalità accordata ad un parente che <<corrisponde una piccola somma mensile oltre alle spese ordinarie per luce, gas, acqua e condominio o di riparazioni necessarie per il godimento>>[viii].

Non vanno però considerate, in questo contesto, le spese di ordinaria amministrazione che il comodatario può affrontare per l’uso e per la conservazione della cosa, spettando, poi, quelle di straordinaria amministrazione al comodante (art. 1808)[ix].

2. Peculiarità

Per quanto attiene alla forma del contratto di comodato, essa è libera: si esclude correntemente la necessità della forma scritta anche per il comodato ultranovennale di beni immobili (non applicandosi, cioè, in via analogica l’art. 1350, in tema di locazione)[x]. L’oggetto del contratto in parola, poi, può concernere cose mobili o immobili, purché inconsumabili ed infungibili, dovendo il comodatario restituire la stessa cosa ricevuta. Proprio detto aspetto, nel quadro più generale del contratto di prestito, vale a distinguere il comodato dal mutuo: nella sistematica del code civil, al pret à usage si contrappone, infatti, il pret de consommation[xi].

Occorre altresì evidenziare che il comodatario è titolare di un diritto personale di godimento circa la cosa comodata, che è tenuto a custodire e conservare con la diligenza del buon padre di famiglia, servendosene solo per l’uso determinato dal contratto o che risulti connaturato alla cosa (art. 1804 c.c.). In caso di mancato adempimento di tali obblighi, così come nel caso di subcomodato senza il consenso del comodante, quest’ultimo può chiedere l’immediata restituzione della cosa, oltre al risarcimento del danno (art 1804 c.c.). Il comodatario è, inoltre, responsabile del perimento della cosa nelle ipotesi individuate dal codice; vale a dire quando: la cosa perisce per un caso fortuito che poteva da lui essere evitato sostituendo la cosa comodata con una propria, ovvero se, potendo salvare una delle due cose, ha preferito la propria (art. 1805 c.c.); impiega la cosa per un uso diverso o per un tempo più lungo di quello a lui consentito, ove non sia in grado di provare che la cosa sarebbe perita anche se non l’avesse impiegata per l’uso diverso o l’avesse restituita tempestivamente (art. 1805 c.c.); la cosa comodata è stata stimata al tempo del contratto (presumendosi che con ciò il comodatario si sia accollato il rischio del perimento della cosa anche per causa a lui non imputabile) (art 1806 c.c.).

Del deterioramento della cosa, invece, il comodatario non risponde, purché sia inconsapevole, ed esclusivamente effetto dell’uso per cui è stata comodata (art. 1807 c.c.).

Quanto ai vizi della cosa consegnata, in realtà il comodante non è tenuto alla garanzia per i vizi della res comodata, trattandosi di un rapporto a titolo gratuito, cosicché non sarebbe ipotizzabile il rimedio della risoluzione o della riduzione del prezzo. Tuttavia, se il comodante conosceva i vizi della cosa (al momento della consegna o anche successivamente), risponderà per i danni conseguentemente subiti dal comodatario, qualora abbia omesso di avvertirlo. Si tratta, dunque, di una responsabilità di natura extracontrattuale similare a quella di cui all’art. 798 che il codice civile dedica alla locazione[xii].

3. La restituzione della cosa. Il comodato precario

Perché un valido contratto di comodato venga ad esistenza, occorre ancora che le parti determino, sia pure in forma tacita, l’uso e, subordinatamente, il tempo per cui la cosa viene comodata.

L’uso può essere determinato in relazione al modo (presto il cavallo per cavalcare o per arare, o per il maneggio), oppure in relazione allo scopo[xiii] (presto ad un amico la mia vettura perché si rechi in una data località per il disbrigo d’affari)[xiv]. Il tempo, a sua volta, può determinarsi con l’indicazione dell’epoca in cui deve avvenire la restituzione, oppure risultare dall’uso per cui la cosa viene comodata.

In ogni caso, la convenzione sull’uso o sulla durata del comodato, può essere espressa o tacita: in quest’ultimo caso, saranno i fatti e le circostanze che diedero origine alla gratuita concessione della cosa a determinare altresì il contenuto del comodato[xv]. Dunque, il comodatario è obbligato alla restituzione della cosa alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando se ne sia servito in conformità al contratto (art. 1809 c.c.).

La tradizionale concezione del comodato quale espressione di (gratuita) cortesia del comodante, è alla base della regola per cui la sopravvenienza di un suo urgente ed impreveduto bisogno, giustifica la richiesta di immediata restituzione della cosa, anche se prima della scadenza del termine stabilito o che il comodatario abbia cessato di servirsene (in conformità all’uso convenuto) (art. 1809 c.c.)[xvi].

Una particolare ipotesi di comodato – se non addirittura un tipo contrattuale autonomo – si ricollega alla previsione secondo cui, ove non sia stato convenuto un termine né questo risulti dall’uso cui la cosa doveva essere destinata, il comodatario è tenuto a restituirla non appena il comodante la richieda (art. 1810 c.c.). Si tratta del c.d. comodato precario, caratterizzato, appunto, dalla facoltà del comodante di recedere ad nutum. Da ciò, si presenta estremamente rilevante puntualizzare, con riguardo alle concrete fattispecie, l’esistenza o meno di un termine, il quale potrà anche riferirsi ad un evento futuro, sebbene non fissato in una data determinata, purché certo. A tale prospettiva viene ricondotto il c.d. comodato vita natural durante, in cui il godimento è stabilito fino alla morte del comodatario ed anche al quale, quindi, ai fini del recesso del comodante, risulta applicabile il regime dell’art. 1809 (e non quello di cui all’art. 1810 c.c.)[xvii].

Controversa è, invece, la questione se un termine possa dedursi dalla mera funzione abitativa di un immobile[xviii]

4. La posizione della giurisprudenza

4.1. L’orientamento ante Cass. Civ., SS.UU., n. 13603/2004

Un genitore concede in comodato al figlio sposato un immobile da destinare a casa familiare. In seguito alla crisi coniugale ed al conseguente giudizio di separazione, il giudice pronuncia il provvedimento di assegnazione dell’immobile in favore del coniuge affidatario dei figli che, nel caso cui ci si riferisce, è individuato nella nuora del comodante. Quest’ultimo, dunque, agisce in giudizio affinché si dichiari la cessazione del comodato precario e si condanni l’oramai ex nuora, al rilascio dell’immobile nonché al pagamento di un compenso per il relativo godimento.

L’importanza della questione testè delineata è resa evidente dalla natura degli interessi coinvolti: l’interesse della comunità familiare, in particolare della prole, alla conservazione dell’ambiente domestico, e quello del titolare del bene, estraneo alle vicende del nucleo ed al giudizio tra i coniugi, a recuperare la disponibilità dello stesso; trattasi, evidentemente, di interessi tanto “delicati” quanto contrapposti che richiedono, pertanto, un ben ponderato bilanciamento.

Invero, il ricorso al comodato senza determinazione di durata, soprattutto in questo momento storico, rappresenta uno strumento frequentemente adottato da genitori o parenti, quale soluzione del problema abitativo in favore delle giovani coppie che contraggono matrimonio.

Ebbene, dinanzi a fattispecie analoghe a quella innanzi riferita la giurisprudenza di legittimità, antecedente il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite n. 13603 del 2004, si è sempre orientata nel senso di ravvisare una successione ex lege del coniuge assegnatario nell’originario rapporto di comodato, con conseguente applicabilità della disciplina propria di tale contratto, compreso tra l’altro, il diritto del comodatario di recedere ad nutum dallo stesso, laddove lo si intendesse quale comodato precario ex art. 1810 c.c.[xix].

Quasi del tutto isolata appariva, di contro, la decisione del 10 dicembre 1996, n. 10977[xx], con cui gli ermellini della Cassazione affermarono che, in caso di assegnazione della casa familiare in sede di procedimento di separazione o divorzio, il titolo del godimento dell’assegnatario è costituito non più dall’originario contratto di comodato, ma dal provvedimento di assegnazione, in quest’ultimo il diritto dell’assegnatario trovando autonoma e (in caso di precedente titolarità del medesimo sul bene) nuova fonte, sia sotto il profilo del tipo di diritto attribuito,  sia sotto il profilo della funzione e delle modalità di relativa disciplina, ivi ricompreso l’aspetto della durata. La scadenza del rapporto e del godimento non è più pertanto, secondo tale interpretazione, quella contrattualmente prevista, bensì quella rideterminata o determinata (in ipotesi di comodato senza previsione del termine) con riferimento al momento dell’esaurimento della destinazione funzionale dell’immobile a casa familiare[xxi].

Quanto alla opponibilità dell’assegnazione nei confronti del terzo proprietario dell’immobile, costituiva orientamento consolidato quello per cui detta opponibilità riguardava le sole ipotesi in cui la titolarità fosse stata acquisita successivamente alla vicenda attributiva dell’alloggio al coniuge separato o divorziato, e non quelle in cui l’acquisto della proprietà o di altro diritto reale fosse anteriore, non potendo il provvedimento giudiziale incidere negativamente ed in modo diretto su una situazione preesistente facente capo ad un soggetto estraneo al giudizio nel quale è stata disposta l’assegnazione[xxii].

Sul punto sono poi intervenute le menzionate Sezioni Unite della Cassazione le quali, con la Sentenza 07/09/2004 n. 13603, sono state chiamate a pronunciarsi, per l’appunto, sulla questione della disciplina applicabile all’assegnazione della casa familiare disposta in favore di uno dei coniugi nell’ambito del giudizio di separazione nell’ipotesi in cui l’immobile fosse stato precedentemente oggetto di comodato da parte del suo titolare perché fosse destinato ad abitazione familiare del comodatario.

Nello specifico, il ricorrente chiedeva la cassazione della sentenza con cui il Giudice di II grado aveva confermato la decisione del Pretore originariamente adito di rigetto della domanda di condanna della nuora alla riconsegna dell’immobile ed al conseguente risarcimento dei danni subiti.

Ebbene la sentenza in argomento si discosta radicalmente dall’orientamento minoritario sopra riferito[xxiii] affermando piuttosto che quando un terzo abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà affinché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento -pronunciato nel giudizio di separazione o di divorzio- di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni (o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa), non modifica né la natura, né il contenuto del titolo di godimento sull’immobile. L’argomento decisivo in tal senso è offerto dalla considerazione evidenziata dai Giudici di Piazza Cavour che <<l’ordinamento non stabilisce una funzionalizzazione assoluta del diritto di proprietà del terzo a tutela dei diritti che hanno radice nella solidarietà coniugale o post coniugale>>; ed è in questa direzione che giungono ad affermare che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa, idoneo ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto ed a <<concentrare>> il godimento del bene in favore del solo assegnatario, resta regolato dalla disciplina del comodato negli stessi limiti che caratterizzavano il godimento nella fase fisiologica della vita matrimoniale.

Invero, l’assegnazione della casa ad uno dei due coniugi, non mira ad innovare la situazione precedente, creando ex novo un titolo di legittimazione ad abitare,  ma <<conserva la destinazione dell’immobile con il suo arredo nella funzione di residenza familiare>>. Detta assegnazione viene conseguentemente costruita come un provvedimento a contenuto negativo, poiché per suo tramite non si attribuisce un diritto, ma si esclude uno dei coniugi dalla utilizzazione del bene; il che determina, appunto, <<una concentrazione della sfera dei beneficiari>>. Quanto riferito, nella prospettiva dei Giudici di legittimità, in riferimento alla fattispecie esaminata, è possibile in quanto la nuora, pur non essendo parte formale del contratto, ne è comunque parte sostanziale: il comodatario riceverebbe l’immobile, infatti, non a  titolo personale, bensì quale rappresentante dell’intero nucleo familiare a favore del quale è concesso il godimento dell’immobile.

Dunque, appurato che il provvedimento del giudice non incide in alcun modo sulla situazione preesistente, ove il comodato sia stato convenzionalmente stipulato a tempo indeterminato, si pone il problema di come qualificare la fattispecie, essendo astrattamente sussumibile tanto in quella di cui all’art. 1809, quanto in quella di cui al 1810 del codice civile. In particolare, si rientrerà nella prima ipotesi ove si ritenga possibile individuare lo specifico uso cui è destinata la cosa; in tal caso il comodatario è obbligato alla restituzione del bene <<quando se n’è servito in conformità del contratto>>, salvo il caso in cui sopraggiunga un urgente ed impreveduto bisogno che consente al comodante di pretendere la restituzione immediata. L’art. 1810, invece, troverà applicazione qualora alla mancata previsione del termine non si possa supplire neanche in via interpretativa; in tale eventualità, si verserà nell’ipotesi di comodato precario con conseguente diritto di recesso cd. ad nutum: il comodatario, dovrà restituire il bene oggetto del contratto, non appena gli verrà richiesto.

Ebbene, proprio in ordine a quest’ultimo punto, l’intervento delle  S.U. si è mostrato a lungo risolutivo. Infatti la sentenza in parola ha chiarito, senza mezzi termini, che ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare (nella specie: dal genitore ad uno dei due coniugi) già formato o in via di formazione, <<si è dinanzi ad una ipotesi di comodato a tempo indeterminato, caratterizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare>>. Ciò perché, in tal caso, si è impresso al bene un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari -dunque non solo e non tanto a titolo personale del comodatario– idoneo a conferire all’uso cui la cosa deve essere destinata, il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale, e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà ad nutum del comodante[xxiv].

Così facendo, le Sezioni Unite giungono ad affermare che, in presenza di funzionale destinazione della cosa a casa familiare (e solamente in tale ipotesi), la figura del comodato precario non è configurabile, poiché in tal caso un termine non può sussistere, rimanendo esso, laddove non convenzionalmente fissato dalle parti, implicitamente determinato alla stregua dell’uso stesso cui il bene è destinato[xxv]. Dunque, presumibilmente, detto termine coinciderà <<con il compimento della funzione di centro della comunità domestica propria della casa coniugale>> certamente ravvisabile nel raggiungimento dell’indipendenza economica dei figli conviventi con l’assegnatario.

Così argomentando, il contratto de quo risulta “svincolato” dalla disciplina dell’art. 1810 c.c. e ricondotto <<a quella di cui all’art. 1809 c.c.>>. Ciò significa che la restituzione dell’immobile non può essere richiesta dal comodante <<in qualsiasi momento>> ma, al di fuori dell’ipotesi di cessazione della funzione propria del bene, esclusivamente nel caso in cui sopravvenga un personale ed imprevisto bisogno di riottenere la disponibilità immediata del medesimo[xxvi].

Facendo riferimento al caso concreto sottoposto alle S.U. del 2004, esse, rilevato che dal tenore complessivo della sentenza impugnata apparisse come pienamente accertato in fatto che il ricorrente concesse l’immobile di sua proprietà in comodato al figlio perché fosse destinato a casa familiare, e che la funzione propria dell’immobile quale habitat del persistente nucleo familiare non fosse cessata, confermavano la sentenza impugnata, pur emendandone la motivazione[xxvii], enunciando il principio di diritto secondo cui: “Nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica la natura ed il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, ma determina concentrazione, nella persona dell’assegnatario, di detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809, comma 2, c.c.”[xxviii].

4.2. L’orientamento critico

Le pronunce successive si sono a lungo inserite nel solco tracciato dalle Sezioni Unite, attenendosi alla ricostruzione così come da Esse operata e non disattendendone la soluzione[xxix].

Una prima “voce fuori dal coro”, fu rappresentata dalla sentenza 13 febbraio 2007, n. 3179. in quel caso, però, furono probabilmente le peculiarità del caso ad indurre i giudici ad ammettere la configurabilità del precario. La casa, infatti, era stata data in comodato da una s.r.l. al suo amministratore delegato, che l’aveva adibita a residenza familiare. I due coniugi si erano poi separati ed il giudice aveva assegnato l’immobile alla donna affidataria dei figli. La società aveva allora richiesto l’immobile, e la Cassazione aveva ammesso, con la sentenza su riferita, l’esercizio del recesso ad nutum.

E’ stata poi la III Sez. della Cassazione che, con la Sentenza n. 15986 del 2010, nel cassare la decisione impugnata di rigetto della domanda di restituzione di un immobile originariamente concesso in comodato dai genitori al figlio e successivamente rimasto nella disponibilità della nuora all’esito della separazione personale -domanda fondata sulla ritenuta necessità che tale pretesa fosse subordinata alla sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno ex art. 1809, 2° co., c.c.- ha enunciato il principio secondo cui <<il comodato precario è caratterizzato dalla circostanza che la determinazione del termine di efficacia del vinculum iuris costituito tra le parti è rimessa in via potestativa alla sola volontà del comodante, che ha facoltà di manifestarla ad nutum, con la semplice richiesta di restituzione del bene senza che assuma rilievo la circostanza che l’immobile sia stato adibito a casa familiare e sia stato assegnato, in sede di separazione tra i coniugi, all’affidatario dei figli>>.

In seguito, perplessità sembrano emergere anche in alcune altre pronunzie ove si è affermato il principio in base al quale a norma dell’art. 1810 c.c., il termine finale del contratto di comodato può risultare dall’uso cui la cosa è destinata in quanto tale uso abbia in sé connaturata una durata predeterminata nel tempo mentre, in mancanza di particolari prescrizioni di durata d’uso corrispondente alla generica destinazione dell’immobile, <<si configura come indeterminato e continuativo, inidoneo a sorreggere un termine finale, sicché in tali ipotesi la concessione deve intendersi a tempo parimenti indeterminato, e cioè a titolo precario, e dunque revocabile ad nutum da parte del comodante>>[xxx].

Ed invero, alla base di siffatte decisioni, c’è la convinzione che una effettiva distinzione tra beni immobili, a seconda che gli stessi vengano o meno funzionalmente destinati a casa familiare, non possa supporsi. Non si condivide, cioè, la tesi secondo cui mentre per i beni immobili privi di detta destinazione, continua ad essere possibile la costituzione di un comodato (anche) senza determinazione di durata, per gli immobili adibiti a casa familiare, il comodato non può invero configurarsi che a termine.

Anche in dottrina la problematica in esame è stata oggetto di dibattito. In particolare vi è chi, facendo leva sul carattere di fiducia presente nel comodato, nega aprioristicamente l’ammissibilità dell’assegnazione della casa familiare[xxxi] oggetto di comodato, ritenendo che si verificherebbe un’impossibilità di fatto o di diritto per il giudice di procedere alla attribuzione, esattamente come accade “quando il diritto di godimento sulla casa è attribuito ad uno dei coniugi a titolo di retribuzione di un’attività lavorativa (come nel caso della attività di portierato), oppure l’immobile sia demaniale (come nel caso del carabiniere che vive con la sua famiglia nell’appartamento accluso alla stazione)”.

 La posizione appena riferita è, però, del tutto minoritaria; la dottrina dominante, infatti, è concorde nel ritenere che la donna affidataria dei figli possa continuare a godere dell’immobile; ciononostante, chi sostiene tale tesi, si divide poi nelle motivazioni a sostegno della stessa. Invero, secondo una recente impostazione, il carattere fiduciario del contratto di comodato, non determinerebbe l’impossibilità dell’assegnazione, ma semplicemente l’impossibilità di succedere ex lege. In sostanza l’attribuzione del diritto di godimento al coniuge assegnatario, continuerebbe a passare attraverso l’attribuzione al coniuge comodatario, con la conseguenza che l’assegnatario non acquista la qualità di nuovo comodatario[xxxii] e ciò perché, spiega chi si fa portatore di tale orientamento, la vicenda successoria non può verificarsi, in quanto si contraddirebbe il carattere intuitus personae del contratto di comodato. Di conseguenza parte del contratto era e resta il comodatario; questi, però, con l’assegnazione subisce una limitazione del proprio diritto di godimento. Infatti il giudice crea, per mezzo di sentenza costitutiva, un altro diritto personale di godimento limitativo del primo, a tutela di interessi superiori: quelli dei figli alla continuità del godimento del luogo abitativo. Si afferma pertanto che “in ordine ai profili dell’atto, con l’assegnazione nulla cambia: né il comodatario, né la causa, né il carattere dell’intuitus personae”[xxxiii].

Logico corollario di tale impostazione è che l’assegnazione non può mutare il termine di durata del comodato: se esso ha termine certo, si applicherà l’art. 1809 c.c.; viceversa, se il comodato è precario, non potrà non trovare applicazione l’art. 1810 c.c.

Un secondo orientamento[xxxiv], invece, considera entrambi i coniugi parte del contratto e ciò anche se alla conclusione dello stesso, abbia partecipato solo uno di essi. Tanto perché, qualora il contratto sia successivo al matrimonio, entrambi i coniugi ne sarebbero parti sostanziali, dal momento che l’indirizzo da accordare alla vita familiare, così come previsto dall’art. 144 c.c., è una decisione comune e si sostanzia nella scelta dell’immobile da abitare. A ciò si obietta[xxxv], però, che l’art. 144 deve necessariamente coordinarsi con il regime patrimoniale della famiglia e che, pertanto, il potere di attuazione dell’indirizzo concordato non può risolversi in un coacquisto ex lege in capo ad ambedue i coniugi di diritti nascenti da contratti posti in essere singolarmente.

Infine, altra dottrina[xxxvi], giustifica l’attribuzione dell’immobile dato in comodato dai nonni del minore, ricorrendo all’art. 148, nella parte in cui dispone che <<Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti [per adempiere l’obbligo di cui all’art. 30 Cost., di mantenere, istruire ed educare la prole], gli altri ascendenti legittimi o naturali, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli>>. Anche quest’ultimo indirizzo, però, non è stato esente da critiche, avendo alcuni contestato[xxxvii] che andrebbe comunque dimostrata l’incapacità dei genitori di procurare altra dimora ai figli; inoltre non si vede perché far gravare tale obbligo solo sugli ascendenti di un coniuge e non su quelli di entrambi. Dunque, quella dei nonni sarebbe una obbligazione alternativa e spetterebbe ad essi scegliere se adempiere non recedendo dal contratto di comodato oppure pagando una somma di danaro.

4.3. Cass. Civ. n. 15113/2013: la rimessione alle S.U.

Le perplessità ed i contrasti esposti emersi, come analizzato, nella giurisprudenza e nella dottrina, hanno indotto la III Sez. della Cassazione a discutere il principio di diritto enunciato nel 2004 ed a rimettere nuovamente la questione -inerente il comodato della casa familiare e la disciplina ad esso applicabile nel caso de quo– all’esame delle Sezione Unite.

L’ordinanza in parola nasce dal ricorso alla Suprema Corte avverso la Sentenza n. 793/2006 della Corte di Appello di Lecce, alla quale si era rivolto il Sig. V.G. impugnando la pronunzia del Tribunale di Lecce di rigetto della domanda proposta nei confronti della nuora sig. Ve., di declaratoria di cessazione del comodato precario avente ad oggetto l’immobile concesso al figlio C. perché vi abitasse con la famiglia; immobile che successivamente, in sede di giudizio di separazione personale, le era stato assegnato quale affidataria del figlio minore P.

Dunque, la questione posta all’attenzione della Corte attiene ancora una volta la sorte del contratto di comodato di immobile concesso dal genitore al figlio in vista del suo matrimonio e successivamente assegnato, in sede di giudizio di separazione personale dei coniugi, alla moglie di quest’ultimo, affidataria del figlio minore, nel frattempo nato. In particolare, nel caso esaminato, avuto riguardo all’an, al quomodo ed al quando il comodante possa ottenerne la restituzione.

Il ricorrente, nello specifico, lamenta che la Corte di merito non abbia considerato che egli, nel dare in comodato l’abitazione al figlio C. ed alla sig.ra Ve., non ha inteso concederla perché questi vi costituissero quel centro di interessi e di relazioni tali da considerarla quale casa familiare. Piuttosto il V. sostiene di aver voluto offrire una mera sistemazione temporanea e provvisoria, con riserva di poterne ritornare in possesso nel caso di necessità per i bisogni della famiglia; sicché il contratto stipulato doveva qualificarsi come comodato precario e non come comodato a termine e che, dunque, in applicazione del principio secondo cui il <<provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minori (o convivente con i figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa), emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica nè la natura nè il contenuto del titolo di godimento dell’immobile>>[xxxviii], trattandosi di comodato senza la fissazione di un termine predeterminato (c.d. precario), il comodatario è tenuto a restituire il bene non appena il comodante lo richieda; ergo la nuora avrebbe dovuto restituire l’immobile, ad nutum.

Ebbene, la III Sez della Cassazione, nell’analizzare detti argomenti, giunge a condividere le perplessità innanzi esposte in merito al principio di diritto cristallizzato dalle S.U. del 2004.

In particolare, il Collegio discute più profili.

Un primo rilievo riguarda l’assunto secondo cui quando un terzo abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento -pronunciato nel giudizio di separazione o di divorzio- di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni senza loro colpa economicamente non autosufficienti, non modifica né la natura né il contenuto del titolo di godimento sull’immobile.

Tale principio viene spiegato in considerazione della destinazione dell’immobile a fungere da casa familiare, avuto riguardo del fatto che per effetto della “concorde volontà delle parti” viene “impresso al comodato un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari (e perciò non solo e non tanto a titolo personale del comodatario) idoneo a conferire all’uso -cui la cosa deve essere destinata- il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la eventuale crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà, ad nutum, del comodante” [xxxix].

Ed è a questo proposito che la Cassazione in commento ritiene non spiegato né quando e come insorga il vincolo di destinazione a casa familiare né quale sia il momento di relativa cessazione, reputando conseguentemente non risolta altresì la problematica concernente se e quale tipo di posizione giuridica tutelata possa ravvisarsi in capo al coniuge ed ai figli del titolare del diritto (reale o personale) sull’immobile adibito a casa familiare.

Ulteriore critica viene mossa nei confronti dell’assunto secondo cui, ove il comodato sia stato convenzionalmente stabilito a termine indeterminato (diversamente da quello nel quale sia stato espressamente ed univocamente stabilito un termine finale), il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809 c.c., comma 2. Detta critica prende le mosse dall’osservazione secondo cui non rimarrebbe a tale stregua spiegato il caso in cui l’immobile venga concesso, ad esempio, dal genitore al figlio nell’immediatezza delle nozze senza determinazione di tempo, ma concordemente in attesa che venga dal medesimo trovata altra soluzione o in attesa del relativo perfezionamento (es., ultimazione di lavori di sistemazione o restauro, liberazione dell’immobile occupato).

Esitazioni derivano, inoltre, dalla pretesa indefinita ed indefinibile durata della funzionalizzazione dell’immobile destinato a casa familiare.

Ciò in quanto a fondamento dell’esclusione della possibilità di recedere ad nutum, anche all’esito dell’assegnazione in sede di procedimento di separazione o divorzio, le Sezioni Unite del 2004 evocano proprio il principio della funzionalizzazione della proprietà sull’immobile destinato a casa familiare. Invero la Cassazione in esame evidenzia, al riguardo, come il Supremo Collegio non distingua a seconda che il proprietario concedente sia coniuge o genitore del beneficiario, ovvero un mero terzo estraneo, ritenendo la distinzione in parola “imprescindibile per una disciplina rispettosa del dettato costituzionale”, viste le incertezze derivanti proprio dalla durata della funzionalizzazione de quo.

La compressione del diritto reale del coniuge proprietario, infatti, si legge nell’ordinanza di rimessione alle S.U., “trova il suo fondamento costituzionale nella tutela della famiglia, dei coniugi e dei figli –di cui agli artt. 29 – 31 Cost.- e nella funzionalizzazione della proprietà ex art. 42 Cost., comma 3, a salvaguardia della solidarietà coniugale e postconiugale; laddove si tratti di terzi, continua, tale tutela non sembra peraltro invocabile. In particolare trattandosi di un mero estraneo”. Evidenziando poi che anche relativamente al genitore, “può farsi invero meramente richiamo all’eccezionale ipotesi di cui all’art. 148 c.c., di concorso negli oneri per l’assolvimento da parte dei figli agli obblighi di cui all’art. 147 c.c. nei confronti della rispettiva prole”. Dunque, il Giudice in parola ritiene che, pur movendo dall’assunto che l’ordinamento non stabilisce una funzionalizzazione assoluta del diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti trovanti fondamento nella solidarietà coniugale o postconiugale, con il conseguente ampliamento della posizione giuridica del coniuge assegnatario, la soluzione seguita dalle S.U. 2004 di considerare l’affidamento e l’interesse del figlio quale unico presupposto legittimante il provvedimento di assegnazione e di ritenere il diritto del figlio al mantenimento (e al persistente godimento dell’habitat familiare) fino a quando non raggiunga l’autosufficienza economica[xl], finisce invero per determinare una situazione destinata a durare indefinitamente nel tempo, a fortiori in presenza di una pluralità di figli. Da ciò il Collegio conclude che, visti gli esiti penalizzanti della suindicata soluzione per il comodante della casa familiare, il ricorso alla figura del comodato “rimane invero quantomeno scoraggiato“. Si pone allora necessaria la questione se “il contemperamento tra le contrapposte esigenze del comodatario o dell’assegnatario, da un canto, e del concedente, da altro canto, possa essere altrimenti e diversamente realizzato”.

Ebbene, proprio alla luce di quanto sopra esposto, la terza Sezione della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 15113 del 17 giugno 2013 qui esaminata, avvertendo l’esigenza di rimeditare l’orientamento interpretativo delineato da Cass., Sez. Un., 21/7/2004, n. 13603, in vista della composizione del determinatosi contrasto interpretativo più sopra segnalato e comunque del superamento delle suesposte perplessità emerse in dottrina e giurisprudenza, ha disposto la trasmissione del ricorso al Primo Presidente, ai fini della relativa assegnazione alle Sezioni Unite.

L’ordinanza di rinvio, quindi, ritiene in prima istanza non spiegato quando e come insorga il vincolo di destinazione a casa familiare né quale sia il momento di relativa cessazione.

A ben vedere, però, la Cassazione ha più volte chiarito che la destinazione d’uso del bene concesso in comodato debba inequivocabilmente risultare dalla volontà delle parti espressa nel contratto; in particolare, si è affermato, l’individuazione del vincolo di destinazione in favore delle esigenze abitative familiari non può essere desunta dalla mera natura immobiliare del bene concesso in godimento dal comodante, ma implica un accertamento in fatto, di competenza del giudice del merito, <<che postula una specifica verifica della comune intenzione delle parti, compiuta attraverso una valutazione globale dell’intero contesto nel quale il contratto si è perfezionato, della natura dei rapporti tra le medesime, degli interessi perseguiti e di ogni altro elemento che possa far luce sulla effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare>>[xli].

Ne consegue che, quando un immobile viene concesso in comodato per essere destinato a casa coniugale, dovendo quindi ciò risultare  dall’accordo delle parti, il contratto in parola dovrà ritenersi implicitamente assoggettato ad un termine finaleed ecco spiegata anche la cessazione del vincolo de quo– che coincide con il venir meno delle esigenze abitative del nucleo familiare[xlii].  A tal proposito, infatti, viene in rilievo la nozione di casa familiare quale <<luogo degli affetti, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime la vita familiare e si svolge la continuità delle relazioni domestiche, centro di aggregazione e di unificazione dei componenti del nucleo, complesso di beni funzionalmente organizzati per assicurare l’esistenza della comunità familiare>>. Così intesa, l’abitazione in parola, dovrà necessariamente caratterizzarsi per <<stabilità e continuità>>; qualità, queste, evidentemente <<incompatibili con un godimento segnato da provvisorietà ed incertezza>>.

In questa prospettiva, il dato oggettivo della destinazione a casa familiare, finalizzata a consentire un godimento per definizione esteso a tutti i componenti della comunità familiare, ha condotto il Supremo Giudice ad affermare appunto che <<per effetto della concorde volontà delle parti, viene a configurarsi un vincolo di destinazione dell’immobile alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all’uso cui la cosa doveva essere destinata il carattere di termine implicito della durata del rapporto, la cui scadenza non è determinata, ma è strettamente correlata alla destinazione impressa ed alle finalità cui essa tende>>; peraltro, detto vincolo di destinazione, non può certamente considerarsi automaticamente caducato per il sopravvenire della crisi coniugale, <<prescindendo quella destinazione, nella sua oggettività, dalla effettiva composizione, al momento della concessione in comodato, della comunità domestica, ed apparendo piuttosto indirizzata a soddisfare le esigenze abitative della famiglia anche nelle sue potenzialità di espansione>>[xliii].

Quanto sopra rilevato, è utile a “smontare” anche l’ulteriore critica secondo cui rimarrebbe privo di soluzione il caso in cui l’immobile venga concesso dal genitore al figlio, nell’immediatezza delle nozze senza determinazione di tempo ma, concordemente, in attesa che venga dal medesimo trovata altra soluzione o in attesa del relativo “perfezionamento”. Infatti se, come si è detto, <<la destinazione del bene in comodato ad uno specifico uso non può essere desunta dalla mera situazione di fatto, creata dal comodatario, ma deve risultare dall’accordo delle parti>>[xliv], e se esiste un accordo in merito alla “temporaneità” della concessione (in attesa che il comodante trovi altra sistemazione), allora l’interpretazione del contratto consentirà al giudice del merito, alla cui discrezionale valutazione è rimessa, di rilevare anche l’eventuale concessione “condizionata” dell’immobile, traendone le dovute implicazioni.

Affrontando, poi, la problematica concernente se e quale tipo di posizione giuridica tutelata possa ravvisarsi in capo al coniuge ed ai figli del titolare del diritto sull’immobile adibito a casa familiare, pure sollevata dalla terza sez. qui esaminata, essa non può che considerarsi priva di qualsivoglia utilità.

Invero, la Suprema Corte si è pronunciata circa fattispecie peculiari in cui, nell’ambito del giudizio di separazione, sia stata disposta l’assegnazione della casa familiare in favore di uno dei coniugi, laddove l’immobile fosse stato precedentemente oggetto di comodato da parte del suo titolare, al fine di consentirne la destinazione ad abitazione familiare del comodatario.

 A tal proposito occorre evidenziare che, compito del giudice della separazione <<non è tanto creare un titolo di legittimazione ad abitare per uno dei coniugi>>, quanto consentire la conservazione della <<destinazione dell’immobile, con il suo arredo, nella funzione di residenza familiare>>; in particolare, l’<<effetto precipuo del provvedimento di assegnazione è quello di stabilizzare, a tutela della prole minorenne o anche di quella maggiorenne, ma non ancora autosufficiente senza propria colpa, la preesistente organizzazione che trova nella casa familiare il suo momento di aggregazione ed unificazione, escludendo uno dei coniugi da tale contesto e concentrando la detenzione in favore, oltre che della prole, del coniuge che, pur potendo non essere stato parte formale del negozio attributivo del godimento, era comunque componente del nucleo in favore del quale il godimento stesso era stato concesso>>. Tale configurazione dell’assegnazione <<non tanto in termini di attribuzione, quanto di esclusione di uno dei coniugi da una utilizzazione in atto, tale da determinare una concentrazione della sfera dei soggetti beneficiari>>, ha come implicazione logica che la posizione del coniuge assegnatario nei confronti del terzo concedente <<resti conformata alla natura del diritto preesistente[xlv] e sia quindi soggetta agli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della comunità domestica nella fase fisiologica della vita matrimoniale>>[xlvi]. Dunque, a nulla rileva l’individuazione della particolare posizione giuridica ravvisabile in testa al coniuge ed ai figli del comodatario[xlvii].

Si contesta, infine, al Supremo Collegio come lo stesso non distingua a seconda che il proprietario concedente sia coniuge o genitore del beneficiario, ovvero un mero terzo estraneo, ritenendo la distinzione in parola “imprescindibile per una disciplina rispettosa del dettato costituzionale”, viste le incertezze derivanti dalla durata della “funzionalizzazione” dell’immobile destinato a casa familiare.

Ebbene, se è vero che le Sezioni Unite, nell’enunciare il principio di diritto de quo[xlviii], si esprimono genericamente riferendosi ad un terzo che concede in comodato l’immobile da destinare a casa familiare, è altrettanto vero, come è stato acutamente osservato, che «pur muovendo dalla ricostruzione della comune volontà delle parti, ciò che risulta determinante al fine di individuare un termine implicito di restituzione del bene concesso in comodato, è il concorso di tre elementi: la destinazione ad abitazione familiare, la presenza di figli non autosufficienti del comodatario ed uno stretto rapporto di parentela tra comodante ed i figli del comodatario»[xlix]. Evidentemente, è proprio la concomitanza di questi aspetti che ha condotto la Suprema Corte a sancire la limitazione del diritto del comodante ad ottenere la restituzione della casa in cui vivono minori non autosufficienti. Ciò, certamente, nel pieno rispetto delle regole costituzionali a tutela della prole e della famiglia.

Dunque, le Sezioni Unite n. 13603 del 2004,  partendo dal presupposto che la destinazione a casa familiare dell’immobile concesso in comodato, (quando ciò sia chiaramente desumibile dall’accordo tra le parti) sia idonea a conferire all’uso – cui la cosa deve essere destinata – il carattere implicito della durata del rapporto; precisando altresì che detto vincolo non può considerarsi automaticamente caducato per il sopravvenire della crisi coniugale[l], giungono ad enunciare il principio di diritto, attualmente discusso con l’ordinanza della III Sez. qui commentata, in tutta coerenza con la  disciplina prevista per il contratto di comodato. Difatti, come già rilevatosi, dalla lettera del combinato disposto di cui agli artt. 1803, 1809 e 1810 c.c., emerge chiaramente che nel contratto in esame, <<la determinazione della durata può avvenire esplicitamente o implicitamente, mediante la pattuizione di un uso specifico, desumibile dalla natura della cosa comodata, dalla professione del comodatario, dagli interessi e dalle utilità perseguiti dalle parti. Solo in mancanza di un termine, implicito o esplicito, il comodante ha la facoltà di richiedere ad nutum la restituzione della cosa comodata>>.

Pertanto, così come l’originario comodatario avrebbe potuto validamente contrastare il recesso del comodante, per non essere cessato l’uso al quale la cosa era destinata, allo stesso modo non potrà  subirla il coniuge assegnatario, il quale, come innanzi chiarito, subentrerà nella stessa posizione dell’altro coniuge nei rapporti col comodante.

Dunque, proprio nel rispetto della comune volontà  delle parti e della rilevanza data al vincolo di destinazione dell’immobile a soddisfare le esigenze abitative familiari, si è giunti ad affermare che il comodante debba <<correttamente ritenersi obbligato a consentire la continuazione del godimento in considerazione del vincolo di destinazione dell’immobile che si è impresso col contratto di comodato>>, negandosi così l’ammissibilità  di una cessazione ad nutum del rapporto, su richiesta del comodante, in seguito all’assegnazione della casa familiare all’altro coniuge, non venendo meno l’interesse di godimento sull’immobile per l’uso che le parti avevano concordemente pattuito.

Se, di contro, si ritenesse ammissibile il recesso immediato, ciò significherebbe <<non prestare la dovuta attenzione al vincolo di destinazione dell’immobile accordato dalle parti contraenti e degli interessi e le utilità  perseguiti dagli stessi, che caratterizzano la vicenda negoziale>>[li]

Pertanto, se è indiscutibile che l’argomento in questione richiede una attenta, e non sempre facile, valutazione dei vari interessi coinvolti nella vicenda dell’assegnazione della casa familiare precedentemente concessa in comodato (l’interesse dei figli alla conservazione dell’ambiente domestico; quello del genitore assegnatario di tutelare e mantenere il suo diritto di godimento sull’immobile e, infine, quello del proprietario comodante, estraneo alla vicenda della separazione, di recuperarne la disponibilità) è altrettanto indubbio che la Cassazione a Sezioni Unite n. 13603 del 2004, non si sia affatto discostata dalla suddetta disciplina civilistica prevista per il contratto di comodato (senza determinazione di durata).

Considerato, infine, che il quadro normativo al quale la questione va riportata è del tutto privo di completezza ed organicità, atteso che la disciplina dell’assegnazione della casa familiare nella separazione e nel divorzio – peraltro segnata, come è noto, da ripetuti interventi del legislatore e della Corte Costituzionale – è carente di espresse previsioni dirette a disciplinare (oltre l’ipotesi della locazione, specificamente considerata dall’art. 6 della legge n. 392 del 1978) tutte le situazioni giuridiche e tutti i titoli di detenzione con i quali il provvedimento di assegnazione può interferire, si mostra necessario, piuttosto che il ricorso a rimedi interpretativi ad opera dei Giudici, un intervento legislativo che preveda espressamente la fattispecie dell’assegnazione della casa familiare disposta in favore di uno dei coniugi nell’ambito del giudizio di separazione in quei casi in cui l’immobile sia stato precedentemente oggetto di comodato da parte del suo titolare affinché fosse destinato ad abitazione familiare del comodatario, disciplinandone compiutamente l’esercizio della facoltà di recedere delle parti.

Invero, solo così facendo si garantirebbe una effettiva tutela del diritto di proprietà del comodante.

Per approfondimenti:

(Altalex, 27 febbraio 2015. Articolo di Laura Donatiello)

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[i] La consegna può essere anche solo simbolica, sottolineandosi che  “la consegna della cosa non deve rivestire forme solenni né avvenire materialmente, potendo anche consistere nel semplice mutamento del titolo della detenzione, ove la cosa sia già detenuta dal comodatario” (cfr.: Cass. 29-1-2003, n. 1293).

[ii] A tal proposito si veda, Carresi, Trattato di diritto civile italiano Il comodato, Vol. VIII, Tomo 2°, fasc. 5- pp. 6 e ss. diretto da F. Vassalli, Torino, 1954

[iii] Così Tamburrino, voce Comodato (dir. civ.), in Enc. Dir. VII, Milano, 1960, p. 998.

[iv] Analogamente, Giampiccolo, voce comodato e mutuo, in Tratt. Dir. Civ., diretto da Grasso e Santoro-Passarelli, Milano 1972. P. 58 e ss.

[v] La unilateralità, per taluni, dovrebbe essere individuata nella diversa prospettiva del carattere principale dell’obbligo del comodante di far godere il bene al comodatario per il tempo o per l’uso convenuto. In questa prospettiva il vero obbligo sembrerebbe quello del comodante di non pretendere “capricciosamente” la restituzione anticipata della cosa e di lasciarla dunque godere al comodatario; laddove l’obbligo della restituzione sarebbe, piuttosto, effetto naturale conseguente la cessazione del rapporto (a tal proposito, Carresi, Trattato di diritto civile italiano Il comodato, cit.).

[vi] Ex multis: Cass. civ. n. 4912 del 1996.

[vii] Lo schema di contratto oneroso più prossimo, è quello della locazione. Invero, questione ricorrente è quella di qualificare il contratto come comodato o locazione, onde applicare o meno la disciplina vincolistica di quest’ultima (che la parte concedente il bene ha ovviamente interesse ad evitare). La giurisprudenza considera sussistente il comodato solo laddove “quanto dovuto dal comodatario non si pone come corrispettivo del godimento della cosa con natura di controprestazione”, ma la entità delle somme “lasci ragionevolmente escludere la dissimulazione di un sottostante contratto di locazione” (cfr. Cass. 4-6-1997, n. 4976; Cass. 2-3-2001, n. 3021).

[viii] A tal proposito si veda, Cass. 15.01.2003. n. 485.

[ix] Ex multis: Cass. civ. n. 7923 del 1992; cass. civ. n. 2407 del 1998.

[x] Si veda Bocchini-Quadri, Manuale di diritto privato, Torino, 2011, pp. 991 ss.

[xi] Peraltro non è da escludere che possano dedursi nel contratto anche cose che, per loro natura sarebbero infungibili o addirittura consumabili, purché le parti ne pattuiscano la restituzione in specie, così come avviene nel cd. comodato <<ad pompam>>, esempio classico del quale è il prestito di monete fatto ad un cambiavalute perché possa esporle nella sua vetrina (analogamente, Ascoli, Comodato di cosa consumabile, in Riv. Dir. Civ., 1919, 174 ss.).

[xii] Cfr. Francesco Gazzoni, Manuale di diritto Privato, Napoli, pp. 1122 ss.

[xiii] Discussa è la questione se debba configurarsi come comodato la concessione della cosa fatta per lo scopo (o almeno con la facoltà) di concederla in garanzia ad un terzo.

[xiv] Cfr in argomento Brugi, Il comodato, Marghieri Utet, Napoli-Torino, 1931.

[xv] V. Fulvio Mastropaolo, I contratti reali, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 1999.

[xvi] Il carattere essenzialmente fiduciario del comodato trova espressione nella possibilità accordata al comodante, in caso di morte del comodatario, di richiedere la restituzione della cosa dai suoi eredi, benché sia stato convenuto un termine (ed esso non sia ancora scaduto) (art. 1811 c.c.).

[xvii] Un’importante conseguenza è tratta da Cass. 6-10-1998, n. 9908, secondo cui proprio l’ammissibilità di “un comodato di una casa per consentire al comodatario di alloggiarvi per tutta la vita”, esclude che in un simile accordo “debba ravvisarsi un contratto costitutivo di un diritto di abitazione, con conseguente necessità di forma scritta ad substantiam” (analogamente, anche per l’esclusione della forma scritta, Cass. 3-4-2008, n. 8548).  Il carattere precario del comodato non viene invece meno (con conseguente possibilità di recesso ad nutum da parte del comodante), appunto per l’incertezza dell’evento futuro considerato, nel caso di clausole come quella che riferisce la durata del comodato “al reperimento di altro alloggio idoneo”. Si è ritenuto, inoltre, trattasi di “figura atipica”, il contratto di comodato, nel quale sia stata prevista la restituzione del bene “nel caso che il comodante ne abbia necessità”: il potere di richiedere la restituzione, allora, potrà “esercitarsi solo in presenza di una necessità di utilizzazione dell’immobile incompatibile con il protrarsi del godimento, e che deve essere prospettata nel negozio di recesso del comodante e dimostrata, in caso di contestazione” (Cass. 12-3-2008, n. 6678).

[xviii] Invero, “l’uso corrispondente alla generica destinazione dell’immobile si considera come indeterminato e continuativo, inidoneo a sorreggere un termine finale, con la conseguenza che, in tali ipotesi, la concessione deve intendersi a tempo parimenti indeterminato e cioè a titolo precario, onde la revocabilità ad nutum del comodante, a norma dell’art. 1810 c.c.” (Cass. 8-10-1997, n. 9775); precisandosi, però, che la giurisprudenza maggioritaria in tali casi ritiene applicarsi la seconda parte dell’art. 1183 c.c., affermando che “il giudice, in mancanza di accordo delle parti, può stabilire il termine per la restituzione della cosa oggetto di comodato, quando per la natura della prestazione ovvero per il modo o il luogo dell’esecuzione e, in particolare, trattandosi di comodato ad uso di abitazione, il comodatario necessiti di congrua dilazione per rilasciare vuoto l’immobile o per trovare altra sistemazione abitativa” (ex multis: Cass. 17-10-2001, n. 12655). Ancora, è da rilevarsi che , con riferimento alla frequente “concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare”, si sia concluso che, in caso di “successiva assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogna, ai sensi dell’art. 1809 c.c.”, ciò perché “per effetto della concorde volontà delle parti”, viene a “configurarsi un vincolo di destinazione dell’immobile alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all’uso cui la cosa doveva essere destinata il carattere di termine implicito della durata del rapporto, la cui scadenza non è determinata, ma è strettamente correlata alla destinazione impressa ed alle finalità cui essa tende” (Cass. Sez. Un., 21-7-2004, n. 13603). Si segnala, infine, l’esistenza di una giurisprudenza che, in tal caso, ha ritenuto ricorrente l’ipotesi di comodato precario (cfr, Cass. 7-7-2010, n. 15986).

[xix] In tal senso: Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 1995, n. 929 che, peraltro, ribadiva il principio all’epoca consolidato, in coerenza con il quale “in sede di separazione consensuale qualora i coniugi stabiliscono che la casa familiare resti a disposizione dell’altro coniuge per abitarla con i figli, il diritto che ne deriva è un atipico diritto personale di godimento ordinato a tutela dell’interesse della prole nata dal matrimonio e non un diritto reale di abitazione con la conseguenza che esso non è opponibile ai terzi”; precisazione questa confermata anche successivamente da Cass. civ. Sez. Un., 26 luglio 2002, n. 11096; Cass. civ. Sez. III, 4 marzo 1998, n. 2407.

[xx] La Pronuncia in parola è stata il riferimento di taluni (pochi) Giudici di merito tra cui si veda: Corte di appello di Lecce n. 793/2006.

[xxi] Oltre che dall’art. 2908 c.c., si è al riguardo argomentato essenzialmente dalla ravvisata opponibilità del provvedimento ai terzi, ai sensi dell’art. 1599 c.c., entro il novennio se avente data certa e non trascritto ed oltre il novennio se trascritto (Cass. 10 dicembre 1996, n. 10977).

[xxii] Ex multis: Cassazione 2407/1998; 10258/1997; 6458/1996; 929/1995; 5236/1994; 1258/1993; 3391/1982.

[xxiv] In quella occasione i Giudici hanno altresì chiarito che <<in caso di  comodato avente ad oggetto un bene immobile, stipulato senza la determinazione di un termine finale, l’individuazione del vincolo di destinazione in favore delle esigenze abitative familiari non può essere desunta sulla base della mera natura immobiliare del bene concesso in godimento dal comodante, ma implica un accertamento in fatto, di competenza del giudice di merito, che postula una specifica verifica delle intenzioni delle parti compiuta attraverso una valutazione globale dell’intero contesto in cui il contratto si è perfezionato>>.

[xxv] In questo modo la Sentenza in parola disattende l’orientamento secondo cui la durata del comodato può desumersi dalla “destinazione abitativa” cui per sua natura un immobile è adibito (in tal senso v. ex multis: Cass 8/10/1997 n. 9775; Cass., 8/3/1995 n. 2719; Cass. 22/3/1994, n. 2750) e, appunto, diversamente statuito che <<la destinazione dell’immobile a fungere da casa familiare, non essendo genericamente connessa alla natura immobiliare, bensì profilatesi in termini di marcata specificità come finalizzata ad assicurare che il nucleo familiare abbia un proprio habitat, come stabile punto di riferimento e centro di comuni interessi materiali e spirituali dei suoi componenti, realizza un vero e proprio vincolo di destinazione dell’immobile>>.

[xxvi] Cit. Cass. S.U. 21 luglio 2004, n. 13603: <<non può peraltro non rilevarsi che un’interpretazione che privasse il comodante proprietario, che già ha rinunciato ad ogni rendita sul bene in favore della comunità familiare, della possibilità di disporne fino al momento, peraltro imprevedibile all’atto della conclusione dell’accordo, del raggiungimento della indipendenza economica dell’ultimo dei figli conviventi con l’assegnatario, si risolverebbe in una sostanziale espropriazione delle facoltà e dei diritti connessi alla sua titolarità dell’immobile, con evidenti riflessi sulla sfera costituzionale del risparmio e della sua funzione previdenziale. Una soluzione siffatta sarebbe inoltre palesemente irragionevole, in quanto appresterebbe allo stesso comodante un trattamento deteriore rispetto a quello spettante al  successivo acquirente il quale, in mancanza di trascrizione, è tenuto a subire l’assegnazione, per un periodo non superiore a nove anni>>.

[xxvii] Il Giudice di II grado infatti, nella parte motiva, affermava che <<l’attore, concedente l’immobile in comodato al figlio, era tenuto a subire il provvedimento presidenziale di assegnazione alla nuora, non potendo considerarsi terzo rispetto a detto provvedimento, sino al momento in cui le proprie nipoti non fossero divenute economicamente autosufficienti>>.

[xxviii] La pronunzia Cass., 21/6/2011, n. 13592 ha poi esteso l’applicazione dei suindicati principi altresì all’abitazione del nucleo familiare di fatto.

[xxix] Cfr, ad esempio: Cass. 6/6/2006 n. 13220; Cass. 13/2/2006, n. 3072; Cass. 18/7/2008, n. 19939; Cass. 11/8/2010, n. 18619; Cass. 28/2/2011, n. 4917; Cass. 21/6/2011, n. 13592; Cass. 14/2/2012, n. 2103; Cass. 2/10/2012, n. 16769.

[xxx] A tal proposito, si veda: Cass. 9/2/2011, n. 3168; Cass. 11/3/2011, n. 5907.

[xxxi] A tal proposito, Gabrielli, I problemi dell’assegnazione della casa familiare al genitore convivente con i figli dopo la dissoluzione della coppia, in Riv. Dir. Civ., 2003, 138 e ss.

[xxxii] Cipriani, Il Comodato, in Trattato di diritto civile del consiglio nazionale del notariato a cura di Perlingieri, Napoli, 2005, 356.

[xxxiii] Frezza, Dal prestito d’uso al comodato nuziale, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2007, 1144.

[xxxiv] Zatti, I diritti ed i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, in Tratt. Dir. Priv. A cura di Rescigno, Torino, 1996,II, 263 e segg.

[xxxv] Gabrielli, op. cit. in Riv. Dir. Civ., 2003, 140.

[xxxvi] Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2007, 395 e segg.

[xxxvii] Frezza, op. Cit. in Il diritto di famiglia e delle persone, 2007, 1144.

[xxxviii]Cfr.  Cass. 13 febbraio 2007, n. 3179.

[xxxix] In tali termini, conformemente alla pronunzia delle S.U. del 2004, v. da ultimo la citata Cass., 2/10/2012, n. 16769.

[xl] Cfr. da ultimo: Cass., 15/2/2012, n. 2171; Cass., 8/2/2012, n. 1773; Cass., 9/5/2013, n. 11020.

[xli] Si vedano in tal senso: Cass. civ. S.U. 21 luglio 2004 n. 13603; Cass. civ. Sez. 3, 18 luglio 2008 n. 19939; Cass. civ. Sez. 3, 21 giugno 2011 n. 13592.

[xlii] Cfr: Cass., 13 febbraio 2006, n. 3072.

[xliii] Cass. civ. S.U. 21 luglio 2004 n. 13603

[xliv] Da ultimo,Cass. civ.-Ord., 16.10.2013, n. 23567.

[xlv] Quello del comodatario il quale, appunto, riceve il bene nella veste di esponente della comunità familiare; in tal senso si veda ancora, Cass. Sez. Un. n. 13603 del 2004.

[xlvi] Cfr: Corte Costituzionale, Sent. 27.07.1989, n. 454.

[xlvii] Ed invero appare logico che se, come si è argomentato, “il provvedimento di assegnazione non ha funzione innovativa ma solo quella di conservare la destinazione dell’immobile e di assicurare, a tutela della prole, la stabilità  dell’ambiente domestico”, il diritto di godimento resta regolato nel suo contenuto, dalla disciplina del titolo negoziale preesistente rimanendo caratterizzato dagli stessi diritti ed obblighi che facevano capo al precedente comodatario. Dunque, la posizione giuridica del coniuge assegnatario deve essere “soggetta agli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della comunità  domestica nella fase fisiologica della vita matrimoniale”, non potendo essere configurabile, in virtù del titolo di godimento del bene, un “ampliamento della posizione giuridica del coniuge assegnatario nei confronti dello stesso proprietario, rispetto a quella vantata dall’originario comodatario”, (in tal senso Cass. n. 14903 del 2004) e non rilevando, quindi, la particolare posizione giuridica configurabile in testa al coniuge ed ai figli del comodatario.

[xlviii]Nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica la natura ed il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, ma determina concentrazione, nella persona dell’assegnatario, di detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809, comma 2, c.c.”.

[xlix] Cfr. Al Mureden, Casa familiare in comodato: il proprietario ha diritto alla restituzione ad nutum, in Fam. e Dir., 2010, n. 12, 1086 s.s.

[l] Come riscontrato, infatti, quella destinazione, <<prescinde, nella sua oggettività, dalla effettiva composizione al momento della concessione in comodato, della comunità domestica, ed apparendo piuttosto indirizzata a soddisfare le esigenze abitative della famiglia anche nelle sue potenzialità di espansione>> (Cass. n. 14903 del 2004).

[li] Cass. civ. S.U. 21 luglio 2004 n. 13603.

 

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