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Può essere considerato il fallimento più grosso di Torino, quello di Franco Costruzioni. I numeri infatti sono impressionanti, “cifre da far strabuzzare gli occhi” come le ha definite nella sua requisitoria il pm Mario Bendoni. Almeno tremila appartamenti a Torino hanno portato la firma di questo costruttore che è stato, per vent’anni, un colosso protagonista del boom edilizio a cavallo degli anni 2000: dai complessi tra corso Rosselli e corso Mediterraneo all’imbocco della Spina 1 agli interventi nella prima cintura, in particolare a Nichelino.

Ma le operazioni raccontate nel processo sono anche al di fuori dei confini nazionali, come ad esempio il progetto “Isola” di Montecarlo “che ha comportato un valore di conferimento pari a 150 milioni di euro: prevedeva la costruzione di una diga di 1500 metri per consentire l’urbanizzazione di un’area sottratta al mare di circa 40 ettari per una superficie costruita di circa 950mila metri quadrati”. Fu iniziato ai tempi di Ranieri di Monaco e lo proseguì, ridimensionandolo della metà, il figlio Alberto “dando vita al piano “Mareterra”, che ha realizzato vendite per 4 miliardi di euro”.

La parabola di Franco Costruzioni sembrava aver toccato il punto più basso con il fallimento, avvenuto nel 2014, della Sarfys, la società che aveva in pancia le aziende del gruppo. Ma da quel fallimento, che vedeva debiti per quasi 100 milioni di euro, sono nate le accuse di bancarotta fraudolenta e patrimoniale che hanno portato a processo Giuseppe Franco, la moglie Michelia Marchiaro (assistiti dall’avvocato Edoardo Carmagnola) e Paola Gindro, amministratrice di una società, la Wheat R srl. Per loro l’accusa ha chiesto rispettivamente 5, 4 e 2 anni di reclusione.

Gli imputati sono accusati di aver «dissipato il patrimonio delle società» attraverso distrazioni per quasi 7 milioni di euro e di «pagamenti ingiustificati da parte di Wheat R» per oltre un milione formalmente riconosciuti come compensi da “associazione in partecipazione”: un rapporto che secondo la procura era fittizio, «istituito solo con esclusiva finalità di evasione fiscale». La guardia di finanza aveva cercato di ricostruire i flussi di denaro delle società, scontrandosi anche con paradisi fiscali e chiedendo 11 rogatorie.

Il lungo capo d’imputazione vede snocciolare una serie di condotte considerate illecite. In particolare sarebbero emersi diversi pagamenti e finanziamenti “ingiustificati”, e il sostenimento di costi “privi di contropartita economica relativi a tre immobili in Spagna”, tra cui una tenuta agricola, un appartamento di prestigio a Madrid e un alloggio a Maiorca “operazioni completamente estranee alla gestione e da ritenersi poste in essere nell’interesse esclusivo della famiglia Franco”.

Gli imputati avrebbero quindi poi provocato il fallimento, o comunque aggravato il dissesto della società fallita, “con dolo e per effetto di operazioni dolose” consistite nell’instaurare rapporti di “associazione in partecipazione” in realtà simulati, solo ai fini di evasione fiscale e per trasferire gli utili delle società operative esenti da imposte. Così che “venivano trasferiti da Rogim srl e Migor srl a Wheat R srl utili per 35 milioni e mezzo di euro e successivamente da Wheat a Michela Marchiaro utili per 27 milioni e 300 mila euro solo in parte corrisposti (nonché per altri 450mila euro solo in parte corrisposti a Giuseppe Franco), da cui derivavano recuperi di imposta e sanzioni da parte dell’Agenzia delle entrate per quasi 10 milioni di euro”.

L’arringa dell’avvocato Carmagnola ha inteso per contro dimostrare l’innocenza dei suoi assistiti, e come gli inquirenti abbiano “retroagito di anni alla ricerca di azioni distrattive, peraltro mai avvenute”. “Ogni singola operazione societaria, oggetto di analisi, è stata perfettamente aderente all’oggetto sociale di società immobiliare e non vi è una sola occasione in cui si sia verificato un trasferimento di denaro dall’Italia verso l’estero” ha spiegato il legale.

Per la difesa il dissesto societario in ogni caso non sarebbe stato “cagionato né aggravato dalle presunte operazioni distrattive” ma era scaturito dalla crisi del mercato immobiliare. “La Società oggetto di fallimento (la Sarfys, ndr, società con “circa 460 unità immobiliari”) ha subito, grandemente, la crisi del mercato immobiliare che ha visto un crollo vertiginoso del valore dei beni immobili, incidendo fortemente sulla solidità societaria” ha spiegato il difensore. E proprio la crisi di liquidità dovuta alla mancanza di compravendite immobiliari originate dalla crisi immobiliare del 2008 “hanno reso la Società fallita molto patrimonializzata, ma estremamente illiquida”.

Quella crisi di mercato difficilmente pronosticabile in un paese come l’Italia fortemente legata al “mattone”, secondo il legale, “ha reso necessario approntare una serie di interventi di riorganizzazione aziendale volti al contenimento dei costi e dell’indebitamento in essere (tramite l’alienazione di asset particolarmente rilevanti)”. La Sarfys S.r.l. dunque non sarebbe fallita “perché i beni aziendali sono stati dissipati o distratti, ma semplicemente perché, come molte altre società immobiliari del settore, ha avuto un quasi azzeramento del capitale societario. Vi è da chiedersi, infatti, come un crollo della patrimonializzazione al di sotto del 40% e la mancanza, nel breve, di liquidità non possa non comportare il dissesto aziendale”.

L’avvocato ha sottolineato come la procedura fallimentare si sia chiusa con la soddisfazione di quasi tutti i creditori insinuati. Il creditore maggiore era rappresentato dalle banche (circa 40 milioni di euro sui 65 complessivi di debito) “chiaro indice di una realtà storica ove le società edili non riuscivano più a far fronte ai mutui di acquisto dei terreni e di ristrutturazione degli immobili acquistati accesi presso gli Istituti bancari, a causa del crollo delle compravendite immobiliari”. Tuttavia a chiedere il fallimento fu la Procura.

 

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