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L’amministratore di una società in grave crisi effettua dei versamenti a titolo di prestito infruttifero per circa 2 milioni di euro. Dopo la dichiarazione di fallimento, egli chiede di insinuare al passivo il credito afferente al finanziamento. Il giudice delegato esclude il diritto alla ripetizione di quanto versato ai sensi dell’art. 2035 c.c. Infatti, a fronte di un’esposizione debitoria di circa 50 milioni di euro, i 2 milioni versati dall’amministratore non potevano avere una concreta finalità di salvataggio ma solo quella di ritardare l’inevitabile.

Il finanziamento effettuato a favore della società dissestata può considerarsi immorale e, quindi, non ripetibile (ex art. 2035 c.c.)?

La Corte di Cassazione, Sezione I, con l’ordinanza del 19 febbraio 2024, n. 4376 (testo in calce), risponde affermativamente. Innanzitutto, preme ricordare che, quando viene eseguita una prestazione in esecuzione di un negozio avente una causa illecita, tale negozio è nullo e, quindi, il solvens ha diritto ad ottenere la restituzione di ciò che ha versato. A tal proposito, si parla di ripetizione dell’indebito (art. 2033 c.c.), ossia restituzione di quanto pagato indebitamente. Nondimeno, questo non si verifica allorché la somma sia stata versata per uno scopo contrario al buon costume (art. 2035 c.c.), vale a dire per un negozio immorale. Ciò premesso, gli ermellini ribadiscono il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’erogazione di somme di denaro ad un’impresa già in stato di decozione, al solo fine di ritardare la dichiarazione di fallimento, aumentando così l’esposizione debitoria, è contraria al buon costume e, in quanto tale, irripetibile. Infatti, la nozione di buon costume non attiene solo alla morale sessuale e alla decenza ma comprende anche le condotte preordinate «alla violazione delle regole di correttezza che governano le relazioni di mercato e alla costituzione di fattori di disinvolta attitudine “predatoria” nei confronti di soggetti economici in dissesto».

Per approfondimenti:

Fallimento e Crisi d’Impresa AA.VV., IPSOA

La vicenda

Dopo il fallimento della società, l’amministratore delegato si oppone al decreto di esecutività dello stato passivo, lamentando di non aver ricevuto i compensi degli ultimi mesi per un importo di circa 100 mila euro e dolendosi del mancato rimborso di cospicui finanziamenti da lui erogati, in qualità di socio, per la somma complessiva di oltre 2 milioni di euro. Egli aveva fatto domanda di ammissione al passivo ma era stata respinta; in particolare, il giudice delegato aveva escluso il credito per i finanziamenti, poiché era ravvisabile una responsabilità ex art. 146 legge fallimentare verso il ricorrente per comportamenti contra legem. Il Tribunale accoglieva parzialmente l’opposizione, ammettendo il ricorrente al passivo in via chirografaria per i crediti relativi ai compensi per la carica di amministratore; invece, dichiarava non ripetibile ai sensi dell’art. 2035 c.c. il credito relativo ai finanziamenti, trattandosi di una prestazione contraria alla morale e al buon costume. Secondo la decisione, sono prestazioni immorali non solo quelle che contrastano con la morale sessuale o la decenza ma anche quelle che non rispondono a principi etici che costituiscono la morale sociale. In particolare, l’erogazione di un finanziamento ad un’impresa in stato di decozione per ritardare la dichiarazione di fallimento è una condotta contraria alle regole di correttezza. Nel caso di specie, la società era in passivo per circa 50 milioni di euro e, quindi, gli oltre 2 milioni messi a disposizione dal ricorrente erano non proporzionati alle esigenze della società, ma il loro scopo consisteva unicamente nel procrastinare l’emersione del dissesto anche a costo di aggravarne le conseguenze.

Si giunge così in Cassazione. 

Premessa: contratto nullo per illiceità e ipotesi di irripetibilità della prestazione

Un contratto illecito è nullo (ex art. 1418 c.c.) e può essere soggetto alla sanzione della irripetibilità (ex art. 2035 c.c.) qualora emerga che le prestazioni sono state eseguite per finalità immorali. La giurisprudenza ammette che un negozio in contrasto con le norme imperative o l’ordine pubblico possa essere, al contempo, oggetto di una valutazione in termini di contrarietà al buon costume. Infatti, chi abbia versato delle somme per finalità di truffa o corruzione non può chiedere la restituzione di quanto corrisposto, perché tali erogazioni non solo sono contrarie a norme imperative, ma anche al buon costume (Cass. 9441/2010; Cass. 25631/2017).

Secondo un orientamento consolidato (Cass. SS. UU. 4414/1981; Cass. 5371/1987), l’art. 2035 c.c. rappresenta una norma di completamento della disciplina della condictio indebiti, infatti, il giudice, chiamato a pronunciarsi su un negozio illecito, procede d’ufficio alla ulteriore valutazione dell’atto (o del contratto) di cui abbia ravvisato l’illegalità o la contrarietà all’ordine pubblico, anche sul piano della sua contrarietà al buon costume, basandosi sulle risultanze acquisite. A tal proposito, preme ricordare che sono irripetibili solo le prestazioni erogate in esecuzione di uno scopo contrario al buon costume e non quelle effettuate in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative (Cass. 16706/2020; Cass. 31883/2019). Inoltre, «la contemporanea violazione, da parte di una medesima prestazione, tanto dell’ordine pubblico quanto del buon costume, attingendo ad un livello di maggiore gravità, deve ricevere il trattamento previsto per la prestazione che sia soltanto lesiva del buon costume» (Cass. 8169/2018; Cass. 25631/2017).

Riassumendo:

  • sono irripetibili solo le prestazioni eseguite per uno scopo contrario al buon costume,
  • sono ripetibili le prestazioni eseguite in virtù di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative (Cass. 783/1987; Cass. 2081/1985; Cass. 4414/1981; Cass. 1035/1977).

Il concetto di buon costume

Tra le varie doglianze, il ricorrente lamenta che il Tribunale abbia accolto l’eccezione di irripetibilità sollevata dal Fallimento in violazione delle preclusioni previste dall’art. 99 legge fall.

La Suprema Corte ritiene del tutto condivisibile la decisione del giudice di merito, atteso che la questione della irripetibilità delle prestazioni eseguite per contrarietà al buon costume è rilevabile d’ufficio ed è sottratta alla disponibilità delle parti, pertanto, non incontra alcuna preclusione processuale. Il concetto di buon costume è una clausola generale che riguarda non solo la morale sessuale, ma anche i principi e «le esigenze etiche della coscienza collettiva, elevata a livello di morale sociale, in un determinato momento e ambiente». Secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, si considerano contrarie al buon costume:

  • non sono solo le prestazioni che avvengono violando le regole della morale sessuale o della decenza,
  • ma anche le prestazioni non conformi ai principi e alle esigenze etiche che rappresentano la morale sociale in un determinato contesto storico-ambientale.

Prestito infruttifero: la non speculatività non esclude una valutazione di illiceità

Il decreto impugnato considera immorale il finanziamento effettuato dal ricorrente in quanto diretto a realizzare un’attitudine predatoria. Secondo il ricorrente, invece, la circostanza che il prestito sia infruttifero escluderebbe qualsiasi margine di approfittamento.

Per quanto attiene alla natura non lucrativa del finanziamento, correttamente i giudici di merito hanno ritenuto che le somme erogate non rientrassero in un piano di salvataggio, ma perseguissero il solo obiettivo di rimandare il dissesto anche con la consapevolezza di aggravarne le conseguenze. Tale condotta è «preordinata alla violazione delle regole di correttezza che governano le relazioni di mercato e alla costituzione di fattori di disinvolta attitudine “predatoria” nei confronti di soggetti economici in dissesto» (Cass. 16706/2020; Cass. 2014/2018; Cass. 9441/2010; Cass. 5371/1987). È pur vero che è lecito il finanziamento effettuato a favore di un’impresa in crisi, anche ad opera di soggetti diversi dalle banche, ma la non speculatività del prestito non esclude, di per sé, una valutazione di illiceità allorché si inserisca «in un contesto di ambigua negoziazione iniziale, tardiva qualificazione giuridica e finale innesto in una vicenda di aggravamento riprovevole del dissesto dell’impresa finanziata» (Cass. 16706/2020).

Inoltre, i richiami effettuati dal ricorrente alla disciplina generale in materia di mutuo sono inconferenti poiché, se il mutuo è funzionale ad occultare lo stato di dissesto per finalità immorali – come ritardare la dichiarazione di fallimento – è un negozio illecito sotto il profilo della causa (Cass. 16706/2020). In tal modo, viola le regole di buon costume relativamente al leale svolgimento delle relazioni competitive di mercato. Per tale motivo, la richiesta di restituzione avanzata va sanzionata con la irripetibilità ex art. 2035 c.c.

Infine, gli ermellini sottolineano come la censura, in verità, solleciti un sindacato sull’apprezzamento operato dal giudice di merito, che non può avvenire in sede di legittimità. È inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si deduca solo apparentemente una violazione di norme di legge, mentre, in realtà, si punta alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito; in tal modo, infatti, si cerca di ottenere una sorta di “terzo grado di merito” (Cass. 3340/2019; Cass. 24155/2017; Cass. 640/2019).

Sì al finanziamento in caso di squilibrio dell’indebitamento, no in caso di irreversibile insolvenza

Il ricorrente invoca l’art. 2467 c.c. a mente del quale il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori. In particolare, il secondo comma, dispone che sono finanziamenti dei soci quelli che siano stati concessi:

  • “in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”.

Secondo la Suprema Corte, il rinvio a questa norma risulta inconferente atteso che la disposizione menziona un mero squilibrio, mentre, nel caso in esame, la società si trovava in uno stato di grave e irreversibile insolvenza.

Per completezza espositiva, si ricorda che l’art. 2467 c.c. mira a tutelare i creditori onde evitare che i soci, preferendo il finanziamento alla ricapitalizzazione, si possano mettere nella stessa condizione dei creditori. Per questa ragione, la restituzione del finanziamento del socio è postergata rispetto alla soddisfazione degli altri creditori.

Conclusioni: rigettato il ricorso del socio

In conclusione, la Suprema Corte rigetta il ricorso del socio e lo condanna al pagamento in favore del Fallimento delle spese giudiziali, oltre alla corresponsione di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex art. 13 c. 1 quater DPR 115/2002.

Inoltre, la Corte dichiara inefficace, in quanto tardivo, il ricorso incidentale con cui il Fallimento contesta la decisione del Tribunale che ha ammesso l’insinuazione al passivo del credito relativo al pagamento dei compensi non corrisposti al ricorrente principale.

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