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Commento a Cass. Civ., Sez. III, 19 febbraio 2020, n. 4175

di Antonio Zurlo 

 

 

 

 

Sommario: Premessa. – 1. Le circostanze fattuali. – 2. La revocabilità del fondo patrimoniale costituito dai fideiussori. – 3. L’asserita nullità della fideiussione omnibus. – 4. L’inefficacia della fideiussione per violazione dell’art. 1955 c.c.

 

Premessa

Con la recentissima ordinanza in oggetto, la Terza Sezione Civile affronta alcune criticità relative all’esperibilità di un’azione di revocazione ordinaria di un fondo patrimoniale, costituito dai fideiussori di una società a responsabilità limitata, aventi un rapporto di stretta parentela e di convivenza con l’amministratore di quest’ultima (circostanza sintomatica e avente rilievo assorbente, ai fini della presunzione di colpevolezza). In via subordinata, vengono anche riaffermati i più recenti assunti giurisprudenziali relativamente alla potenziale nullità derivata del contratto “a valle”, astrattamente inficiato da un’intesa anticoncorrenziale “a monte”.

****************************

 

Le circostanze fattuali.

Due fideiussori ricorrevano avverso la sentenza della Corte d’Appello di Brescia, che, rigettando l’appello, aveva confermato l’accoglimento dell’azione revocatoria, svolta nei loro confronti, ai sensi dell’art. 2901 c.c., dalla Banca creditrice, per vedere dichiarare l’inefficacia dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale, in cui erano confluiti i beni immobiliari degli stessi ricorrenti.

 

La revocabilità del fondo patrimoniale costituito dai fideiussori.

Con il primo motivo, i fideiussori deducevano che la Corte territoriale avesse ritenuto erroneamente sussistente l’elemento oggettivo e soggettivo dell’azione revocatoria, intentata ex art. 2901 c.c., nei loro confronti, in qualità di garanti in forza di fideiussioni bancarie rilasciate in relazione ai debiti di due società, entrambe amministrate dal figlio, con loro convivente. Più nello specifico, denunciavano un vizio nel ragionamento presuntivo dei giudici di merito, in relazione alla supposta esistenza sia dell’eventus damni, che della scientia damni, disattendendo la formulata contestazione di non aver avuto cognizione della situazione d’insolvenza in cui le due società versavano (non essendo essi soci e non avendo avuto, del pari, contezza della circostanza che la Banca garantita avesse revocato gli affidamenti concessi). In tal guisa, i ricorrenti deducevano che da tale mancata conoscenza avrebbe dovuto desumersi, per contro, che l’atto dispositivo di costituzione del fondo patrimoniale, oggetto di revocatoria, fosse stato stipulato nell’inconsapevolezza della situazione d’insolvenza.

Con il secondo motivo, riferito sempre alla sussistenza della scientia damni, veniva dedotta la sussistenza di una motivazione apparente, con conseguente violazione dell’art. 132, secondo comma, c.p.c.; i giudici di secondo grado, nel rigettare l’appello, avrebbero utilizzato un ragionamento presuntivo errato, in ordine alla sussistenza della prefata scientia damni.

La Terza Sezione Civile, analizzandoli congiuntamente, giudica infondati i primi due motivi di doglianza.

La motivazione addotta nel pronunciamento gravato ha dato rilievo alla sequenza temporale di circostanze anteriori (o, comunque, concomitanti) all’atto dispositivo di costituzione del fondo patrimoniale tra i due coniugi, per sua natura a titolo gratuito, chiaramente sintomatiche della sussistenza tanto del pregiudizio arrecato al creditore dall’atto costitutivo (in cui, si badi, era confluito l’intero patrimonio immobiliare dei due coniugi fideiussori), quanto della scientia damni degli stessi garanti fideiussori, riposta su elementi presuntivi e, segnatamente, sul dato, incontestato, che lo stato d’insolvenza, nel quale già obiettivamente versavano le due società amministrate dal figlio, fosse non solo significativamente anteriore all’atto dispositivo, ma anche presumibilmente noto ai disponenti, in quanto fideiussori, deponendo in tal senso non solo il rapporto di stretta parentela e convivenza con il figlio (amministratore delle due società garantite), ma anche l’invio della raccomandata contenente l’avviso di revoca degli affidamenti al loro indirizzo di residenza (da considerarsi correttamente come comunicazione ricevuta, ex art. 1335 c.c.)[1].

Con precipuo riferimento all’obbligazione prestata dai fideiussori, che hanno costituito il fondo patrimoniale, l’azione revocatoria ordinaria, per la sua esperibilità (e per la valutazione dell’eventus damni), presuppone la sola esistenza di un debito, e non anche la sua concreta esigibilità: di tal guisa, una volta prestata una fideiussione, in relazione alle future obbligazioni del debitore principale, connesse a un’apertura di credito, gli atti dispositivi dei fideiussori (nella specie, la costituzione di un fondo patrimoniale, ricomprensivo degli unici beni immobili di loro proprietà), successivi all’apertura di credito e alla prestazione della fideiussione, se compiuti in pregiudizio delle ragioni del creditore, sono soggetti all’azione disciplinata dall’art. 2901, n. 1, prima parte, c.c.[2].

L’insorgenza del credito va, dunque, apprezzata con riferimento al momento dell’accreditamento (o dell’affidamento) dato al debitore principale dal creditore, oggetto della garanzia prestata, e non, per contro, a quello, eventualmente successivo, dell’effettivo prelievo, da parte del debitore principale, della somma messa a sua disposizione[3].

Il principio di diritto applicato dalla Corte bresciana, laddove ha considerato il carattere già in sé pregiudizievole della disposizione patrimoniale intervenuta tra i coniugi, si dimostra conforme a quanto indicato dalla giurisprudenza in tale materia, nel senso che l’atto di costituzione del fondo patrimoniale, dovendosi ritenere a titolo gratuito, è assoggetto all’azione revocatoria ai sensi dell’art. 2901, primo comma, n. 1), c.c., ove sussista un pregiudizio arrecato ai creditori e non sia dimostrato che l’atto abbia una diversa causa giustificativa[4]. Sicché, nel caso in cui l’atto di disposizione del fideiussore sia a titolo gratuito e incida negativamente sulla garanzia patrimoniale generica costituita dal patrimonio del debitore, ex art 2740 c.c., risultando successivo al sorgere dell’accreditamento fatto dal creditore al debitore principale garantito, si realizza la condizione inerente all’esistenza di un concreto pregiudizio per agire in revocatoria, a meno che il debitore non comprovi che l’atto attenzionato non costituisca un effettivo pregiudizio e abbia una sua propria causa giustificativa.

La Terza Sezione rileva, poi, come l’ulteriore condizione per l’esperibilità dell’azione revocatoria nei confronti del fideiussore sia che l’atto appaia compiuto nella ragionevole consapevolezza del pregiudizio, anche solo eventuale, che esso possa arrecare alle ragioni creditorie. La prova della scientia damni riguarda un fatto di per sé impalpabile, attinente a quanto avvenuto in interiore homine, in ordine alla determinazione soggettiva a effettuare una disposizione patrimoniale in pregiudizio delle ragioni del creditore e che, in quanto tale, non è normalmente acquisibile in termini di prova certa. La prova presuntiva, quindi, rappresenta, consequenzialmente, il più comune mezzo a disposizione, dal momento che consiste in un ragionamento logico – deduttivo che, sulla base di fatti noti, consente di risalire a fatti ignoti. Se, difatti, è vero che la prova presuntiva non possa essere svilita a una mera massima di esperienza, è altresì veritiero che la stessa, al contempo, possa essere cercata anche d’ufficio, una volta che la parte abbia dedotto e comprovato i fatti noti, che ne possono costituire il fondamento. Laddove i fatti conosciuti siano ritualmente entrati nel materiale probatorio utilizzabile ai fini della decisione, il giudice deve, comunque, procedere al ragionamento presuntivo: o per trarre la prova dei fatti allegati da una parte, oppure, simmetricamente, per concludere che i fatti noti di cui dispone siano privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, e che, quindi, non consentano di risalire alla circostanza ignota[5].

In maniera non dissimile da quanto affermato in precedenza, anche in questo caso incombe sulla parte a cui sfavore gravano le presunzioni iuris tantum addure la prova contraria e idonea a vincerle, con valutazione comunque rimessa all’apprezzamento del giudice di merito (anche nel caso in cui detta prova risulti difficilmente ottenibile)[6].

Ciò premesso, la presunzione di consapevolezza del fideiussore di ledere le ragioni creditorie, per giurisprudenza consolidata, è passibile di essere desunta da varie circostanze, tra le quali lo status di socio della società debitrice principale e, in sua mancanza, la sussistenza di un determinato rapporto, anche di stretta parentela e convivenza, tra il fideiussore e l’amministratore della società garantita, che si trovi in stato di difficoltà (circostanza questa rinvenibile nel caso di specie).

In tal senso, la presunzione che si trae dal rapporto di parentela, intercorrente tra il disponente e l’amministratore della debitrice, già in stato di insolvenza, è da ritenersi logica e congrua, laddove tale rapporto personale (che, si badi, di per sé solo può essere più o meno significativo, in relazione al contesto in cui si colloca) si caratterizzi per la coabitazione tra le medesime parti, riguardi parenti stretti e non risulti alcun altro motivo oggettivo idoneo a rendere ragione della disposizione patrimoniale[7]. Il percorso argomentativo – motivazione della Corte d’Appello di Brescia è, anche in questo caso, immune da censure; difatti, il giudice di seconde cure ha correttamente applicato la normativa, dando ampia motivazione della sussistenza delle due condizioni sopraindicate; ne consegue l’infondatezza della prima e della seconda censura. La contestazione circa la mancata ricezione della lettera raccomandata, con cui la Banca aveva comunicato ai fideiussori e alla società il recesso dagli affidamenti rilasciati a una delle due società garantite, pur annoverata dalla Corte di merito tra i vari indici di consapevolezza dei fideiussori di ledere le aspettative della garantita, non è circostanza tale da mettere in discussione il ragionamento presuntivo adottato: la presunzione di consapevolezza si può, in effetti, di per sé, trarre dalla considerazione della ristretta cerchia familiare in cui si è consumata la vicenda (circostanza anch’essa posta a supporto della decisione gravata)[8].

 

L’asserita nullità della fideiussione omnibus.

Con il terzo motivo, i garanti – ricorrenti deducevano che la Banca resistente, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, avesse dovuto insinuarsi al passivo del fallimento della società debitrice e che tale omissione avesse impedito la surroga dei fideiussori nei diritti, nel pegno, nelle ipoteche e nei privilegi del creditore. Rilevavano, inoltre, per la prima volta, la nullità della fideiussione rilasciata, in quanto conforme allo schema predisposto dall’ABI, dichiarato illegittimo dalla Banca d’Italia con provvedimento del 2 maggio 2005, per violazione della disciplina anticoncorrenziale.

La censura, anche in questo caso, è infondata.

La questione dell’invalidità, invero non nuova nel panorama ordinamentale, coinvolge un contratto “a valle”, di un’intesa anticoncorrenziale illecita “a monte”, predisposto ancor prima dell’accertata violazione da parte dell’Autorità preposta[9].

Il Collegio sottolinea come, in riferimento ai contratti “a valle” dell’intesa, si sia ritenuto che l’accertamento dell’esistenza di intese anticoncorrenziali, vietate espressamente dall’art. 2 l. n. 287/1990, con stipulazione di contratti o negozi che costituiscano l’applicazione di quelle intese illecite concluse “a monte” (relative alle norme bancarie uniformi ABI, in materia di contratti di fideiussione, in quanto contenenti clausole contrarie a norme imperative), comprenda anche i contratti stipulati anteriormente all’accertamento dell’intesa illecita da parte dell’Autorità indipendente, preposta alla regolazione o al controllo di quel mercato, a condizione che quell’intesa sia stata posta in essere materialmente prima del negozio denunciato come nullo (considerato anche che rientrano sotto la disciplina anticoncorrenziale tutte le vicende successive del rapporto, che costituiscano la realizzazione di profili distorsivi della concorrenza)[10].

La giurisprudenza di legittimità è ormai pressoché granitica sulla questione, avendo sancito che i destinatari della legge 10 ottobre 1990, n. 287, non siano solo ed esclusivamente gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovverosia chiunque sia portatore di un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del carattere competitivo, al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale caratterizzazione in conseguenza dell’implementazione di un’intesa vietata. Si deve tenere in debita considerazione che: da un lato, a fronte di un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore – acquirente finale del prodotto offerto dal mercato vede eluso il proprio diritto a porre in essere una scelta effettiva, tra prodotti in concorrenza; dall’altro, il c.d. contratto “a valle” costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e a attuarne gli effetti. Dal momento che la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno in via astratta, il danno ingiusto specificamente richiesto dall’art. 2043 c.c., il consumatore finale, che abbia subito un danno da una contrattazione “viziata” (che non abbia ammesso alternative, proprio per effetto di una collusione “a monte”), ha, a propria disposizione, seppure non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, la facoltà di esperire un’azione di accertamento della nullità dell’intesa e, conseguentemente, di chiedere il risarcimento del danno, di cui all’art. 33 l. n. 287/1990[11].

Sempre relativamente alla dedotta nullità della fideiussione, la Terza Sezione evidenzia, inoltre, che non si possa tacere del precedente reso dalle Sezioni Unite, in tema di rilievo dell’eccezione di nullità contrattuale[12], con cui è stato statuito che la domanda di accertamento della nullità di un negozio proposta, per la prima volta, in appello è inammissibile ex art. 345, primo comma, c.p.c., salva la possibilità per il giudice del gravame (obbligato comunque a rilevare di ufficio ogni possibile causa di nullità, ferma la sua necessaria indicazione alle parti ai sensi dell’art. 101, secondo comma, c.p.c.) di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità legittimamente formulata dall’appellante, giusta il secondo comma del citato art. 345.

In altri termini, la rilevabilità officiosa costituisce il proprium anche delle nullità speciali, incluse quelle denominate “di protezione virtuale”: il potere del giudice di rilevarle tout court deve reputarsi essenziale al fine del perseguimento di interessi pur sempre generali, sottesi alla tutela di una data classe di contraenti (quali, per esempio, i consumatori, i risparmiatori o gli investitori); interessi che possono finanche coincidere con valori costituzionalmente rilevanti (su tutti, il corretto funzionamento del mercato, ex art. 41 Cost., e l’uguaglianza, non solo formale, tra contraenti in posizione asimmetrica), con l’unico limite di riservare il rilievo officioso delle nullità di protezione al solo interesse del contraente debole (unico legittimato a proporre l’azione di nullità), in da evitare che la controparte possa (ove vi abbia un qualche interesse), sollecitare i poteri officiosi del giudice per un interesse suo proprio, ultroneo e destinato a rimanere estraneo dall’ambito tutelare cui è preposta la normativa.

Tale potere di rilievo officioso della nullità contrattuale, per violazione delle norme sulla concorrenza, spetta anche al giudice investito del gravame relativo a una controversia sul riconoscimento di una pretesa che supponga la validità ed efficacia del rapporto contrattuale oggetto di allegazione e che sia stata decisa dal giudice di primo grado senza che questi abbia prospettato (e, quindi, esaminato) tali prerequisiti[13]. La possibilità di rilievo d’ufficio della nullità riguarda anche il giudizio di legittimità (pur dovendosi sottolineare i limiti che tale rilievo può incontrare in tale sede, ai sensi dell’art. 372 c.p.c.).

Analizzando da un punto di vista più sostanziale la questione, occorre avere riguardo agli effetti distorsivi “derivati” dalla nullità di un’intesa anticoncorrenziale di tipo orizzontale, intervenuta tra i vari operatori economici di un determinato settore, verificando se (ed eventualmente in che misura) questi si siano effettivamente trasferiti nei singoli negozi stipulati “a valle”. A tal riguardo, la Terza Sezione, allineandosi con l’orientamento già espresso in seno alla giurisprudenza di legittimità, ribadisce che dalla declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concorrenza, emessa dalla Autorità Antitrust ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287 del 1990, non si possa far discendere automaticamente la nullità di tutti i contratti posti in essere dalle imprese aderenti all’intesa[14].

Da ultimo, il Collegio, richiamando una recente pronuncia della Prima Sezione[15], rileva che la nullità “a valle” delle fideiussioni omnibus debba essere valutata alla stregua dell’art. 1418 ss. c.c. e che possa trovare applicazione l’art. 1419 c.c. ove l’assetto degli interessi in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle clausole rivenienti dalla intesa illecita (considerato che, in linea generale, solo la Banca potrebbe dolersi della loro espunzione).

La nullità dell’intesa, costituente il presupposto di validità del titolo negoziale (rectius, della fideiussione) da cui deriva la legittimazione attiva della creditrice, per quanto rilevabile d’ufficio, in sede di giudizio di legittimità non può, pur tuttavia, essere accertata sulla base di una “nuda” eccezione, sollevata per la prima volta con il ricorso per cassazione, rimandando la deduzione a contestazioni mai effettuate dalle parti convenute nell’azione revocatoria, a fronte della quale l’intimato sarebbe costretto a subire il “vulnus” di maturate preclusioni processuali[16]. Ne consegue che l’eccezione de qua sia priva degli elementi necessari per poter essere rilevata d’ufficio, sulla base degli elementi fattuali acquisiti e discussi tra le parti.

 

L’inefficacia della fideiussione per violazione dell’art. 1955 c.c.

Da ultimo, in merito all’asserita inefficacia della fideiussione oggetto di controversia per la violazione dell’art. 1955 c.c. (che prevede l’estinzione della garanzia per effetto della condotta del creditore che, per fatto proprio, non abbia permesso al fideiussore la surroga nei suoi diritti), il Collegio evidenzia come, in siffatta ipotesi, al soggetto creditore si addebiti un mancato esercizio di un proprio diritto e non la violazione di un dovere giuridico, imposto dalla legge[17]. A titolo meramente esemplificativo, l’accordo transattivo, intervenuto tra creditore e terzo, che comporti l’estinzione di un’ipoteca posta a garanzia del credito, ha come conseguenza la liberazione del fideiussore per fatto del creditore, ai sensi dell’art. 1955 c.c., perché tale accordo integra un comportamento (ovverosia, un fatto imputabile al creditore) dal quale deriva un pregiudizio giuridico, non solo economico, sofferto dal fideiussore, che si concretizza nella perdita del diritto di surrogazione, ex art. 1949 c.c., o di regresso, ex art. 1950 c.c.[18]. Per converso, nell’ipotesi in esame, occorre considerare che l’escussione diretta del fideiussore rappresenta il naturale effetto del negozio di garanzia, poiché esso ha la precipua funzione di istituire in favore del creditore un diritto di rivalersi sul garante, anziché sul debitore inadempiente, allargando la cerchia dei soggetti tenuti al pagamento dell’obbligazione; il garante, dopo essere stato escusso, può sempre surrogarsi nei diritti del creditore verso il debitore (ad esempio, insinuandosi tardivamente al passivo del fallimento), dal momento che il diritto di surroga del fideiussore non viene pregiudicato dalla sola scelta del creditore di escutere il garante, anziché il debitore.

Da quanto dedotto, deriva l’infondatezza anche del terzo motivo di ricorso, addivenendosi, conclusivamente, al rigetto del ricorso.


[1] Cfr. Cass. Civ., Sez. I, 28 settembre 2017, n. 22687, in dejure.it; Cass. Civ., Sez. I, 2016, n. 17204, in dejure.it.

[2] Si deve, difatti, tenere in considerazione il fattore oggettivo dell’avvenuto accreditamento (eventus damni), cui si deve aggiungere la consapevolezza dei fideiussori di arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore (scientia damni).

[3] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 9 aprile 2009, n. 8680, in dejure.it; Cass. Civ., Sez. III, 19 gennaio 2016, n. 762, in dejure.it.

[4] Sul punto Cass. Civ., Sez. III, 9 aprile 2019, n. 9798, con nota di B. D’Amato, Gratuità del fondo patrimoniale richiamato nell’accordo di separazione tra i coniugi e revocatoria ordinaria, in Ilfamiliarista.it, 24 luglio 2019; Cass. Civ., Sez. VI, 6 dicembre 2017, n. 29298, in dejure.it; Cass. Civ., Sez. VI, 10 febbraio 2015, n. 2530, in dejure.it.

[5] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 11 luglio 2017, n. 17058, con nota di P.M. Storani, La prova presuntiva nel danno non patrimoniale del prossimo congiunto del macroleso, in Ridare.it, 27 settembre 2017; Cass. Civ., Sez. III, 31 gennaio 2019, n. 2788, con nota di F. Meiffret, Danno morale e danno dinamico relazionale sono strutturalmente distinti, in Ridare.it, 4 ottobre 2019.

[6] V. Cass. Civ., Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546, con nota di R. Masoni, Un’ulteriore tappa per il completamento dell’opera: secondo la Cassazione il danno esistenziale può essere provato per presunzioni, in Diritto di Famiglia e delle Persone (Il), fasc. 1, 2007, 109; v. anche M. Di Marzio, Il danno esistenziale? Ormai sdoganato, in Diritto e Giustizia, fasc. 28, 2006, 14; P. Campanile, L’autonomia ontologica del danno esistenziale., in Giustizia Civile, fasc. 6, 2007, 1427B.

[7] Cass. Civ., Sez. VI, 18 giugno 2019, n. 16221, con nota di G. Tarantino, Ammissibile anche quando il debitore possiede altri beni ma il recupero del credito diviene più difficoltoso per il creditore, in Diritto & Giustizia, fasc. 112, 2019, 13; Cass. Civ., Sez. III, 19 gennaio 2019, n. 1286, in dejure.it; Cass. Civ., Sez. III, 29 maggio 2013, n. 13447, in dejure.it.

[8] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 6 luglio 2018, n. 17720, in dejure.it.

[9] Per un approfondimento, A. Zurlo, Fideiussione omnibus e disciplina anticoncorrenziale, in Diritto del risparmio – Osservatorio del diritto, ISSN 2704-6184, 8 agosto 2019, https://www.dirittodelrisparmio.it/2019/08/08/fideiussione-omnibus-e-disciplina-anticoncorrenziale/.

[10] V. Cass. Civ., Sez. I, 12 dicembre 2017, n. 29810, con nota di C. Belli, Contratto a “valle” in violazione di intese vietate dalla Legge Antitrust, in GiustiziaCivile.com, 25 maggio 2018. V. anche S. D’Orsi, Nullità dell’intesa e contratto “a valle” nel diritto antitrust., in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 3, 2019, 575.

[11] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 4 febbraio 2005, n. 2207, con nota di T. Meschini, Nota a Cass. civ. S.U. n. 2207 del 2005, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 6, 2005, 721. V. A. Zurlo, Le fideiussioni “a valle” e le intese anticoncorrenziali “a monte”: le prime “immunizzate” dalla nullità delle seconde, in Diritto del risparmio – Osservatorio del diritto, ISSN 2704-6184, 2 ottobre 2019, https://www.dirittodelrisparmio.it/2019/10/02/le-fideiussioni-a-valle-e-le-intese-anticoncorrenziali-a-monte-le-prime-immunizzate-dalla-nullita-delle-seconde/.

[12] Il riferimento è a Cass. Civ., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242, in dejure.it.

[13] Trattasi, infatti, di questione afferente ai fatti costitutivi della domanda e integrante, in quanto tale, un’eccezione in senso lato, rilevabile d’ufficio, anche in appello, ai sensi dell’art. 345 c.p.c.: in tal senso, Cass. Civ., Sez. Un., 22 marzo 2017, n. 7294, in dejure.it. V. anche Cass. Civ., Sez. VI, 2017, n. 8841, con nota di D. Achille, La rilevabilità d’ufficio della nullità del negozio testamentario, in Diritto & Giustizia, fasc. 62, 2017, 9; Cass. Civ., Sez. VI, 19 luglio 2018, n. 19251, in dejure.it.

[14] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 11 giugno 2003, n. 9384, in dejure.it; Cass. Civ., Sez. I, 13 febbraio 2009, n. 3640, con nota di T. Elisino, Il consulente del lavoro non è l’unico legittimato a prestare il servizio di elaborazione e stampa paghe dei lavoratori, in Diritto & Giustizia, fasc. 0, 2009, 155; Cass. Civ., Sez. III, 20 giugno 2011, n. 13486, in dejure.it; Cass. Civ., Sez. VI, 23 aprile 2014, n. 9116, in dejure.it. In tale ultima circostanza, come testualmente riportato nella pronuncia qui commentata, si è sancito che nel giudizio promosso dall’assicurato e avente a oggetto il risarcimento del danno da questi patito per l’elevato premio corrisposto in conseguenza di un’illecita intesa orizzontale restrittiva della concorrenza, posta in essere da compagnie assicuratrici, gli atti del procedimento, in esito al quale l’AGCM abbia accertato la sussistenza dell’illecito anticoncorrenziale e irrogato una sanzione a una determinata impresa, costituiscano una prova privilegiata (se non una presunzione) del danno patito dal singolo assicurato. Ne consegue che la medesima impresa assicuratrice possa fornire prova contraria dell’eziologia tra l’illecito concorrenziale e il danno, non per il tramite di argomentazioni generali (tese a rimettere in discussione i fatti costitutivi della sussistenza della violazione della disciplina sulla concorrenza, già valutati dall’Autorità), bensì offrendo precise indicazioni su situazioni e comportamenti relativi a essa e all’assicurato, idonei a dimostrare che il livello del premio non fosse stato determinato dalla partecipazione all’intesa illecita, ma da altri fattori.

[15] Il riferimento è a Cass. Civ., Sez. I, 4 aprile 2019.  

[16] V., da ultimo, Cass. Civ., Sez. II, 9 agosto 2019, n. 21243, nel qual caso, in merito a una richiesta di pagamento del compenso per l’attività di mediazione espletata, era stata sollevata, solo in sede di legittimità, l’eccezione relativa alla mancata iscrizione del mediatore nel relativo albo professionale.

[17] In tal senso, Cass. Civ., Sez. I, 5 dicembre 2008, n. 28838, per cui: «Il fatto del creditore, rilevante ai sensi dell’art. 1955 c.c. ai  fini della liberazione del fideiussore, non può consistere nella mera inazione, ma deve costituire violazione di un dovere giuridico imposto dalla legge o nascente dal contratto e integrante un fatto quanto meno colposo, o comunque illecito, dal quale sia derivato un pregiudizio giuridico, non solo economico, che deve concretizzarsi nella perdita del diritto (di surrogazione ex art. 1949 c.c., o di regresso ex art. 1950 c.c.), e non già nella mera maggiore difficoltà di attuarlo per le diminuite capacità satisfattive del patrimonio del debitore». V. anche Cass. Civ., Sez. I, 20 settembre 2017, n. 21833, in dejure.it; Cass. Civ., Sez. III, 16 giugno 2003, n. 9634, in dejure.it.

[18] Cfr. Cass. Civ., Sez. I, 25 settembre 2018, n. 22775, in dejure.it.


 

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