La corsa del Suv più caro del mondo finisce definitivamente fuori strada con il sequestro da 2,4 milioni di euro e due misure cautelari per bancarotta fraudolenta, autoriciclaggio e false fatturazioni.
L’operazione del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza rappresenta l’ultimo tassello di un’inchiesta partita nel 2020 e che il prossimo 11 settembre approderà davanti al gup Gloria Biale. Gli atti dell’inchiesta — in cui figurano 19 imputati, tra i quali due commercialisti e un avvocato — raccontano la storia della Vercaromodel Saro di Beinasco, storica azienda degli anni ‘80 attiva nel settore della progettazione e realizzazione di prototipi di veicoli sportivi per clienti come Ferrari e Porsche. E tra i fiori all’occhiello dei progetti annoverava la realizzazione di «Karlmann King», il prototipo di Suv più caro al mondo per un valore di 3 milioni di euro.
Tutto inizia nel 2020, quando la società fallisce lasciando senza lavoro circa 120 dipendenti. Sono stati poi i finanzieri, coordinati dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio e dalla sostituta Lisa Bergamasco, a scoprire che dietro al crac non c’erano solo la crisi del settore automotive e il Covid. Piuttosto — è l’ipotesi di accusa — una «strutturata pianificazione distrattiva operata dal titolare della società fallita e dai suoi familiari finalizzata a “svuotare” progressivamente il patrimonio dell’impresa».
Nei guai finisce la famiglia Falsone. I provvedimenti cautelare eseguiti ieri — in seguito a una battaglia legale davanti ai giudici del Riesame e della Cassazione — hanno riguardato il dominus della Vercaromodel Saro, Rosario Falsone (agli arresti domiciliari) e la figlia Noemi (destinataria dell’interdizione). A processo ci sono altri tre membri della famiglia, più una schiera di professionisti, imprenditori e presunte teste di legno a capo di società «satelliti» riconducibili alla casa madre.
L’accusa che viene mossa ai protagonisti di questo fallimento è di aver distratto ingenti somme di denaro attraverso un collaudato giro di false fatturazione ed evasioni fiscali. Non solo, nel capo d’imputazione si legge anche che la famiglia Falsone «avrebbe distratto dal patrimonio 323 mila euro per acquisti personali del tutto estranei all’economia aziendale»: nell’elenco compaiono gioielli, orologi, abiti, accessori e soggiorni. Altri 39 mila euro sarebbero stati usati per comprare dell’oro.
Ma la fetta più grande della presunta distrazione sarebbe avvenuta attraverso il sofisticato giro di false fatturazioni. Cifre da capogiro: avrebbero «sottratto il libro inventari della fallita e falsificato le scritture contabili annotandovi fatture per operazioni inesistenti con importi sovrafatturati per oltre 7 milioni di euro». E ancora, avrebbero cagionato il dissesto «utilizzando, ai fini dichiarativi, le fatture false con cui sarebbero state distratti almeno 12 milioni e 504 mila euro attraverso le imprese satellite che documentavano prestazioni di servizi, presentando sistematicamente false dichiarazioni fiscali, accumulando un debito con l’erario di 3 milioni e 800 mila euro». Un maxi-bancarotta che, sommando quanto riportato nelle 82 pagine che compongono il capo d’imputazione, vale circa 14 milioni di euro.
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