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La provvisoria esecutorietà della sentenza civile di primo grado e i presupposti della sua sospensione costituiscono uno snodo essenziale del processo. L’evoluzione di tali istituti evidenzia il rischio che l’attuale enfasi sull’insolvenza dell’appellato come motivo per la sospensione abbia effetti discriminatori, che meritano di essere contrastati con proposte di segno diverso. 

Sommario: 1. Il nuovo art. 283 c.p.c. – 2. La limitata esecutorietà della sentenza di primo grado fino al 1993 – 3. L’esecutorietà generalizzata e l’infittirsi delle preclusioni – 4. La revisione dell’art. 283 c.p.c.: verso l’inibitoria dei ricchi – 5. La portata classista dell’attuale art. 283 c.p.c. – 6. Prospettive – 6.1. Un diverso concetto di fumus – 6.2. Idee per modifiche normative.

1. Il nuovo art. 283 c.p.c.

 Il nuovo testo dell’articolo 283 del c.p.c., introdotto dal d.lgs. 149/22 e applicabile alle impugnazioni proposte dall’1.3.2023 in poi, opera per la prima volta la netta scissione del fumus boni iuris e del periculum in mora, presupposti che in precedenza la norma teneva uniti, richiedendoli entrambi per la sospensione dell’esecutorietà della sentenza di primo grado. Peraltro, la prassi si era da tempo orientata a concedere l’inibitoria in presenza anche di uno solo dei due, se evidente, e viceversa a negarla motivando sull’evidente assenza di uno dei due.

Il nuovo art. 283 c.p.c., invece, ha previsto in modo alternativo l’ipotesi dell’impugnazione che appaia “manifestamente fondata” e quella del pregiudizio grave e irreparabile che possa derivare dall’esecuzione della sentenza, “pur quando la condanna ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”.

La laconicità del riferimento al fumus e la prolissità del riferimento al periculum non lasciano dubbi sull’intento del legislatore di promuovere, alla luce della nota riluttanza del giudice dell’impugnazione a formulare prognosi sul merito prima della sentenza, un’inibitoria tutta centrata sul pericolo nel ritardo. Ed è verosimile che il messaggio venga recepito.

Finora le inibitorie concesse per la sussistenza del fumus si sono spesso basate su motivazioni apparenti, con le quali il giudice evitava di esplicitare il suo pensiero sul merito della causa. La nuova tipologia di inibitoria imporrà invece di motivare in modo effettivo l’affermazione di manifesta fondatezza (qualunque cosa significhi) dell’impugnazione, il che potrebbe indurre il giudice che non voglia “esporsi” a ravvisare il fumus solo in casi estremi, magari anche allora mascherando il suo giudizio con qualche artificioso richiamo al solo pericolo.

Il fatto è che, come si vedrà, il legislatore non ha voluto soltanto ridimensionare il fumus, ma ha pure riformulato il periculum in maniera ben discutibile. 

2. La limitata esecutorietà della sentenza di primo grado fino al 1993

Nel sistema originario del codice di procedura civile, l’art. 282 prevedeva solo su istanza di parte (riproponibile in appello) l’esecutorietà della sentenza di primo grado, che era facoltativa in caso di pericolo nel ritardo o di domanda fondata su atto pubblico o scrittura privata riconosciuta o sentenza passata in giudicato, e invece obbligatoria (tranne “particolari motivi per rifiutarla”) nel caso di condanna al pagamento di provvisionali o a prestazioni alimentari. A fronte delle non frequenti clausole di esecuzione provvisoria, poi, era ridotto il ruolo riservato dall’art. 283 c.p.c. alle richieste di inibitoria per assenza dei requisiti per la concessione.

La tendenziale non esecutorietà della sentenza di primo grado si giustificava in un sistema di fatto gerarchico, nel quale dell’appello si occupava un giudice “superiore” che riesaminava il caso nei limiti del petitum devoluto, ma con vincolo attenuato quanto alla rivalutazione dei fatti (si parlava di appello come mero gravame) e potendo tener conto di nuove eccezioni, nuovi documenti e nuovi mezzi di prova. Di regola, quindi, la stabilità della sentenza di primo grado non era un valore, mentre lo era quella della sentenza di appello, la cui esecutorietà era (e ancora è) soggetta a sospensione solo in presenza di un pericolo qualificato (di “grave e irreparabile danno”).

Questo sistema non favoriva gli attori meno abbienti che avessero avuto ragione in primo grado, i quali erano esposti ad appelli dilatori di avversari benestanti che potevano sopportare i costi della prosecuzione del giudizio e in tal modo indurli ad accettare nelle more dell’appello delle transazioni al ribasso. La disfunzione, particolarmente avvertita in materia di lavoro, spinse il legislatore della riforma approvata con l. 533/73 a rendere esecutiva la sentenza di primo grado, a favore del solo lavoratore e sulla base del solo dispositivo; regola la cui razionalità si apprezzava in un processo caratterizzato da rigide preclusioni sin dalla fase introduttiva del primo grado, destinato a concludersi con una sentenza la cui stabilità tendenziale era un valore da tutelare.

L’esecutività immediata venne poi estesa dall’art. 5-bis l. 39/77 alle sentenze di condanna a risarcimenti in favore dei soggetti danneggiati dalla circolazione dei veicoli. Anche in questo caso, pur trattandosi di controversie di rito ordinario non soggette a rigide preclusioni, il legislatore valorizzava l’esigenza di scoraggiare appelli dilatori delle compagnie assicurative, idonei a ritardare la soddisfazione dei diritti di persone talvolta lese in modo gravissimo. 

3. L’esecutorietà generalizzata e l’infittirsi delle preclusioni  

La situazione è mutata a partire dall’1.1.1993, quando l’esecutorietà della sentenza di primo grado è diventata regola generale, prevista dal nuovo art. 282 c.p.c. Nello stesso periodo, anche il rito ordinario ha posto al centro il giudizio di primo grado e si è caratterizzato per le preclusioni, rese via via più rigide dalle riforme succedutesi fino ad oggi.

Che da tale evoluzione sia derivato un miglioramento della qualità e dell’efficacia della risposta giudiziaria, è cosa di cui dopo un trentennio è lecito dubitare, nonostante il legislatore reagisca alla constatazione delle disfunzioni incrementando le dosi e la rigidezza delle preclusioni. E neppure considerando che, quanto meno sul piano probatorio, in una quota crescente di cause civili il principio di preclusione ha scarso rilievo: oltre a quelle di stato, di famiglia e delle persone, tutte quelle – alla stregua della saggia pronuncia nr. 5624/22 delle Sezioni Unite – nelle quali la “prova regina” sia di fatto costituita dalla CTU.

La valorizzazione di quel principio, egemone nella cultura giuridica di 40-50 anni fa, si è ormai trasformata in una mitologia opprimente e retriva, che subliminalmente induce il giudice ansioso di far presto per non doversi giustificare per la legge Pinto (la ragionevole durata del processo come diritto tiranno) a scovare negli atti di parte vere o presunte carenze che gli consentano di decidere senza accertare i fatti e senza ponderare gli interessi in gioco.

Questa mitologia, i cui effetti perversi nessuno ovviamente rivendica, ha favorito la celebrazione di sempre meno rari processi di primo grado nei quali, dopo un’iniziale sommaria reiezione delle richieste di prova, si emettono sentenze composte di lunghe e inutili descrizioni stereotipate degli istituti applicabili, seguite da poche righe in cui si “motiva” il rigetto della domanda perché non provata. Sentenze, la cui immediata esecutività non risulta certo socialmente accettabile.

4. La revisione dell’art. 283 c.p.c.: verso l’inibitoria dei ricchi  

Alla regola dell’immediata esecutorietà della sentenza di primo grado si accompagnò a partire dall’1.1.1993 la modifica dell’art. 283 c.p.c., che ampliava la possibilità di sospensione dell’esecutorietà ai casi di sussistenza di “gravi motivi”, locuzione che la l. 263/05 ha sostituito con quella di “gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”.

Mentre la clausola dei “gravi motivi” affidava alla discrezionalità del giudice la valutazione dei presupposti, la successiva tipizzazione del pericolo nel ritardo mediante il riferimento alla possibilità di insolvenza, unita alla tendenza dei giudici di appello a motivare le decisioni dando un rilievo preponderante al periculum, finiva per richiamare l’attenzione sull’indigenza (così dovendosi intendere l’uso atecnico del termine “insolvenza”, proprio della materia fallimentare) della parte vincitrice in primo grado. Attenzione di oggettiva portata colpevolizzante, perché considera l’appellato povero che abbia vinto in primo grado come persona sospettabile di voler spendere il denaro che le deriverebbe dall’esecuzione provvisoria non già per i bisogni primari reintegrando il suo patrimonio, ma per il gusto di sottrarsi alle future restituzioni all’appellante non indigente: una singolare riedizione dell’intramontabile retorica delle classi pericolose.

5. La portata classista dell’attuale art. 283 c.p.c.   

Nel testo attuale dell’art. 283 c.p.c., alla luce del contesto normativo e dell’esperienza giudiziaria via via formatisi, l’espressione “anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”, pur immutata dal 2005 a oggi, ha assunto una portata alquanto tossica. Essa non può che esser letta in unione con la premessa (di per sé superflua, non essendo controversa la possibilità di un periculum rispetto a condanne pecuniarie) “pur quando la condanna ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro”, sì da costituire per il giudice di appello una sorta di memento, di invito a dare la massima importanza sia al denaro della parte condannata in primo grado, sia al denaro (se poco) della parte vittoriosa: il messaggio classista forse involontario della l. 262/05 diventa così un netto richiamo a pensarci bene, prima di consentire all’indigente di godere subito della somma riconosciuta in primo grado.

E la prassi si va adeguando a questo messaggio, con appellanti economicamente forti che si affannano a dimostrare la povertà della controparte, l’assenza di immobili o di beni mobili registrati, la modestia dello stipendio o della pensione, la disoccupazione o la percezione di reddito di cittadinanza. E con appellati che, anziché respingere con sdegno questo tipo di argomentazioni, comprensibilmente si affannano a dimostrare che non sono poi così poveri, che alla bisogna saranno in grado di restituire tutto, eccetera.

Non richiede particolari argomentazioni l’estraneità al sistema costituzionale dell’indecente inibitoria dei ricchi che in tal modo si delinea, con “l’ingresso massiccio nelle Corti di prospettazioni difensive classiste, che in passato sarebbero state sconvenienti ex art. 89 c.p.c. e oggi non lo sono più” di cui mi è capitato di scrivere in altra occasione, ingresso che ormai è diventato un flusso inarrestabile.

Al di là di quanto le decisioni dei giudici di appello in tema di inibitoria possano in concreto essere condizionate da questa deriva (ma che non lo siano affatto è tanto impensabile quanto non verificabile, attesa la non impugnabilità delle ordinanze), deve anche considerarsi lo svilimento, che alla funzione difensiva viene imposto dalla normativa: il difensore dell’appellante benestante, che per ripugnanza morale o sensibilità sociale evitasse di motivare la richiesta di inibitoria con la povertà della controparte, e ovviamente di documentarla, sarebbe forse una brava persona ma certamente un cattivo avvocato, perché rinuncerebbe a tutelare gli interessi del suo assistito con gli strumenti forniti dalla legge.

E questa situazione non è paragonabile ad es. a quella del difensore del mafioso o del pedofilo o dello stupratore che cerchi di far invalidare la prova viziata da cui emergerebbe la colpevolezza dell’imputato, difensore che comunque tutela l’interesse del suo assistito alla libertà personale e quello dell’ordinamento a condannare solo sulla base di prove genuine. Il difensore dell’appellante benestante che debba sostenere, davanti al giudice di appello, che l’appellato non deve godere della sentenza di primo grado perché è povero, quale funzione è costretto a svolgere? 

6. Prospettive  

In questo quadro desolante, bisogna pur provare a immaginare forme di mitigazione, e magari di innovazioni per un futuribile legislatore illuminato.

6.1. Un diverso concetto di fumus

Nonostante l’approssimativo riferimento del nuovo art. 283 c.p.c. all’impugnazione che appaia “manifestamente fondata”, è sicuramente necessario recuperare un ruolo effettivo al fumus boni iuris.

Ai fini dell’inibitoria, infatti, la manifesta fondatezza dell’impugnazione, sia perché “apparente” sia perché valutata in un provvedimento interlocutorio, non può e non deve avere la stessa concludenza richiesta ai fini della sentenza di accoglimento dell’appello. Al di là quindi delle ipotesi in cui tale accoglimento sembri certo, dovranno considerarsi quei casi sempre più diffusi, in cui la sentenza di primo grado risulti affetta da errori procedurali o di giudizio così gravi, che la sua eventuale conferma possa derivare soltanto da una rinnovata/integrata istruzione e/o motivazione.

Se risulta che prove orali non ammesse in primo grado debbono dal giudice di appello essere ammesse, oppure rinnovate a causa dell’approssimazione con cui sono state assunte, l’impugnazione “apparirà” manifestamente fondata, perché al di là dell’esito finale la decisione andrà motivata in modo totalmente nuovo. Se risulta che una CTU è stata indebitamente omessa, oppure mal fatta o non approfondita, oppure travisata dal primo giudice, sì che se ne rende necessaria la rinnovazione o l’integrazione o il riesame, ugualmente l’impugnazione “apparirà” manifestamente fondata, perché al di là dell’esito finale la decisione andrà motivata in modo totalmente nuovo. E lo stesso dovrà ritenersi, quando risulti l’omesso esame di un punto essenziale della causa, sul quale solo l’appello per la prima volta appunterà l’attenzione.

Con la sospensione dell’esecutorietà in queste non rare ipotesi di grave approssimazione della decisione di primo grado, la tutela dei diritti dell’appellante (anche benestante) sarà sicuramente più pregnante, e scevra di aspetti degradanti, rispetto a quella ottenuta additando al giudice la controparte quale malfidato povero

6.2. Idee per modifiche normative  

Sul piano normativo, si dovrebbe ripensare la generalizzata esecutorietà della sentenza di primo grado, il cui concreto funzionamento ha tradito le aspettative. Se il giudizio di primo grado è diventato il centro del processo quanto alla riduzione del diritto delle parti ad adeguare le difese al suo andamento, ma non quanto all’affidabilità del suo prodotto finale dato dalla sentenza, allora insistere in quella esecutorietà sembra inutile e disfunzionale, tranne che per materie specifiche come il lavoro o i danni da circolazione automobilistica. Un sorvegliato ritorno all’originaria formulazione degli articoli 282 e 283 c.p.c., pur opportunamente rivisitati, costituirebbe oggi un progresso, rispetto alla regressione che incombe.

Si dovrebbe poi metter mano al vecchio e incomprensibilmente inalterato art. 373 del codice, consentendo la sospensione della sentenza di secondo grado anche in presenza di fumus di fondatezza del ricorso di legittimità, e affidando la relativa decisione alla Corte di Cassazione. Non si vede infatti perché, a fronte di Corti sovranazionali che possono disporre forme di tutela immediata della parte ricorrente (come la Corte EDU, competente a impartire ordini urgenti agli Stati convenuti), non possa essere il nostro giudice di legittimità a valutare, nella pienezza delle funzioni anche quanto al fumus, se meritino stabilità le singole sentenze di appello. Sentenze la cui presunzione di buona qualità è rimasta finora, ai fini dell’inibitoria, un dogma del nostro sistema.

[1] A tale proposito, un magistrato di lunga esperienza ha affermato di vedere nella previsione ordinamentale di un fascicolo che riporti le “gravi anomalie” del magistrato “qualche conseguenza positiva. Qualche collega che non motiva i provvedimenti, sarà costretto a farlo. Il giudice, che respinge sempre le prove richieste dalle parti e poi rigetta la domanda per mancanza di prove, dovrà essere più professionale” (cfr. Milella: Spera: “Non sposo le ragioni di questa ANM divisa in correnti”, in “La Repubblica”, 15.5.2022)

[2] In https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/93-diritto-ed-economia/2453-il-ritorno-del-diritto-di-classe

 

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