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Avvocato e cliente hanno pattuito a voce un compenso di favore, ma poi, come a volte capita, il rapporto si logora e l’avvocato recapita al cliente la raccomandata chiedendo l’intero importo dovuto in base ai parametri. A quale compenso avrà diritto il difensore: a quello stabilito a voce in accordo con il cliente o a quello dovuto secondo tabella?
A questa domanda ha risposto la Corte di Cassazione, sezione VI-2 civile, con l’ordinanza 5 marzo – 8 settembre 2021, n. 24213 (testo in calce).
Il Tribunale di primo grado, chiamato a decidere sul compenso del legale, dopo aver sentito i testimoni e aver appurato l’esistenza di un accordo per un compenso effettivamente inferiore all’importo richiesto, aveva condannato il cliente a pagare all’avvocato una somma inferiore a quella pretesa in giudizio e corrispondente a quella pattuita.
L’accordo sul compenso era stato concordato a voce, e il Tribunale si era “accontentato” delle dichiarazioni dei testi indotti dal cliente, per ridurre la parcella pretesa dal legale.
L’avvocato ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, di cui uno, quello relativo alla violazione dell’articolo 2233 comma 3 del codice civile, è stato accolto dalla Corte.
L’articolo 2233 comma 3 del codice civile sanziona con la nullità il patto sul compenso fra avvocato e cliente, se non è redatto in forma scritta. La chiarezza della previsione normativa era stata messa in discussione con l’entrata in vigore della nuova legge professionale. L’articolo 13 comma 2 della Legge professionale, contiene infatti una previsione apparentemente più blanda, e stabilisce che il compenso dell’avvocato deve essere pattuito “di regola”, per iscritto. Questa formulazione ha portato taluni a ritenere implicitamente abrogata la vecchia regola codicistica della forma scritta a pena di nullità. La Corte di Cassazione però adotta un’altra linea interpretativa. Secondo la Suprema Corte “la novità legislativa” introdotta dalla nuova legge professionale, “ha lasciato impregiudicata la prescrizione contenuta nell’articolo 2233 comma 3 del codice civile”. La norma sopravvenuta infatti “non si riferisce alla forma del patto, ma al momento in cui stipularlo”.
In poche parole, l’articolo 13 della legge professionale stabilisce che gli accordi sul compenso debbano essere di regola stipulati al momento del conferimento dell’incarico. Mentre l’articolo 2233 comma 3 del codice civile prescrive che la forma dell’accordo sia la forma scritta a pena di nullità.
La conclusione è quindi che l’accordo sul compenso deve essere provato producendo in giudizio l’atto scritto. Non trova applicazione il principio di non contestazione. Non possono supplire alla mancanza del documento scritto né la confessione del cliente, né la prova testimoniale, salvo il caso di “perdita incolpevole del documento” (articolo 2724 numero 3 del codice civile). L’inammissibilità di prove diverse da quella scritta, precisa la Corte, è rilevabile di ufficio e può essere eccepita per la prima volta anche in Cassazione.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 24213/2021 >> SCARICA IL TESTO PDF
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