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Tra l’avvocato e il cliente intercorre un contratto, pertanto, nel caso in cui il legale risulti inadempiente dovrà risponderne. Ad esempio, cosa accade se il professionista deposita l’impugnazione oltre il termine ovvero omette di compiere atti interruttivi della prescrizione o, ancora, non informa il cliente?

Nella presente disamina ci si sofferma sulla responsabilità civile dell’avvocato, anche se la responsabilità del professionista forense può assumere diverse sfumature, infatti, oltre che di responsabilità civile, si può parlare di responsabilità penale e disciplinare.

1. Quando si parla di responsabilità professionale dell’avvocato?

Il concetto di responsabilità professionale è ampio, in quanto comprende:

  • la responsabilità civile,
  • la responsabilità penale,
  • la responsabilità disciplinare.

Se l’avvocato è inadempiente alla propria obbligazione contrattuale nei confronti del cliente e cagiona un danno risponde civilmente (responsabilità civile); è responsabile penalmente, ad esempio, se intenzionalmente agisce contro l’interesse del proprio assistito, commettendo il reato di patrocinio infedele (responsabilità penale); infine, se viola i doveri deontologici è sanzionabile disciplinarmente (responsabilità disciplinare). In questa sede, ci si soffermerà sulla responsabilità civile dell’avvocato.

2. La disciplina di riferimento

In materia di responsabilità civile dell’avvocato, le norme che vengono in rilievo sono contenute segnatamente nel Codice civile, nella legge professionale forense e nel Codice deontologico. Tra le molteplici disposizioni, si citano le seguenti.

  • 1176 c. 2 c.c. la diligenza media del professionista. Secondo la consolidata giurisprudenza, devia dal precetto di cui all’art. 1176 c. 2 c.c. il professionista «che tenga una condotta diversa da quella che, nelle medesime circostanze, avrebbe tenuto il c.d. homo eiusdem generis et condicionis, vale a dire il professionista “medio”. Il professionista “medio”, ossia la figura ideale che costituisce il parametro di valutazione della condotta che si assume colposa, non corrisponde ad un professionista “mediocre”, ma ad un professionista “bravo”, ovvero sufficientemente preparato, zelante e solerte» (ex multis, Cass. 13777/2018; Cass. 24213/2015, Cass. 10289/2015).
  • 1218 c.c. in materia di responsabilità per inadempimento.
  • 2236 c.c. rubricato “responsabilità del prestatore d’opera”, dispone che se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave. La norma esclude la responsabilità per colpa lieve.
  • Legge professionale forense (legge 247/2012), tra le varie norme si citano: art. 3 rubricato “Doveri e deontologia”, art. 6 “Segreto professionale”, art. 12 “Assicurazione per la responsabilità civile e assicurazione contro gli infortuni”, art. 13 “Conferimento dell’incarico e compenso”, art. 14 “Mandato professionale. Sostituzioni e collaborazioni”,
  • Codice deontologico forense (approvato dal Consiglio nazionale forense nella seduta del 31.01.2014 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 241 del 16.10.2014), tra le varie disposizioni si citano: art. 10 “dovere di fedeltà”, art. 11 “rapporto di fiducia e accettazione dell’incarico”, art. 12 “dovere di diligenza”, art. 13 “dovere di segretezza e riservatezza”, art. 14 “dovere di competenza”, art. 23 “conferimento dell’incarico”, art. 26 “adempimento del mandato”, art. 27 “doveri di informazione”, art. 28 “riserbo e segreto professionale”, art. 32 “rinuncia al mandato”.

3. Il rapporto tra avvocato e cliente

Prima di analizzare la responsabilità professionale civile dell’avvocato, è bene soffermarsi sul rapporto intercorrente tra il professionista e il cliente, partendo dal contratto di riferimento.

a. Il contratto di patrocinio e la procura

Ricordiamo la distinzione tra il rilascio della procura ad litem e il contratto di patrocinio concluso dal legale e dal cliente.

  • La procura (art. 83 c.p.c.) ha una propria autonomia rispetto al rapporto di patrocinio ( 14276/2017) e costituisce un negozio unilaterale con il quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio e deve essere redatta per iscritto; a tal proposito, si parla di rapporto endoprocessuale.
  • Il mandato sostanziale, invece, «[…]costituisce un negozio bilaterale (cosiddetto contratto di patrocinio) con il quale il professionista viene incaricato, secondo lo schema negoziale che è proprio del mandato, di svolgere la sua opera professionale in favore della parte. Ne consegue che, ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, non è indispensabile il rilascio di una procura ad litem, essendo questa necessaria solo per lo svolgimento dell’attività processuale […]» ( 10454/2002; Cass. 18450/2014; Cass. 13927/2015; Cass. 20865/2019).

Sul punto, preme ribadire che la procura ad litem presenta un’autonomia logica e concettuale rispetto al rapporto di patrocinio. Secondo la “regola” dell’autonomia (Cass. 20865/2019):

  • il rilascio della procura non prova l’esistenza di un sottostante rapporto di patrocinio,
  • il rilascio della procura sottende il rapporto di patrocinio, solo qualora si dimostri che le parti intendevano concludere anche il contratto di cui sopra.

Come vedremo, il semplice rilascio della procura, necessario all’esercizio dello ius postulandi, non è idoneo a dimostrare l’assolvimento del dovere di informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull’opportunità o meno di iniziare un processo o intervenire in giudizio (Cass. 14597/2004; Cass. 7708/2016).

b. Il contratto di mandato e il contratto di prestazione d’opera intellettuale

Ricordiamo brevemente cosa s’intende con mandato e prestazione d’opera:

  • il mandato è il contratto con cui il mandatario si obbliga a compiere uno o più atti giuridici a favore del mandante (1703 c.c.);
  • la prestazione d’opera intellettuale è il contratto con cui il prestatore svolge la propria attività professionale a favore del committente (2229 c.c.).

Le norme sul mandato hanno carattere generale, mentre le disposizioni sulla prestazione d’opera intellettuale sono speciali. «L’incarico affidato al difensore, pur rientrando nella più ampia categoria del mandato quale assunzione dell’obbligazione di compiere atti giuridici (aventi cioè la capacità di produrre effetti di quel tipo), è, in ragione delle specifiche caratteristiche che connotano l’attività professionale, oggetto dell’obbligazione disciplinata dagli art. 2229 e ss. c.c.» (Cass. Ord. 185/2020).
Quanto alla forma, non è richiesta quella scritta ad substatiam, per contro, il conferimento della procura ad litem, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, deve avvenire per iscritto. L’unica eccezione in ordine alla forma del contratto di patrocinio si verifica nel caso in cui il cliente sia una pubblica amministrazione, circostanza in cui la forma scritta è a pena di nullità (art. 17 R.D. 2440/1923). Infatti, tutti i contratti stipulati dalla P.A. presentano il requisito della forma scritta, al fine di consentire il controllo del contenuto negoziale e per ragioni di trasparenza (Cass. 8500/2004; Cass. 2266/2012, Cass. Ord. 10675/2020).

c. La controparte dell’avvocato: non sempre cliente e assistito coincidono

Giova chiarire che non sempre v’è una coincidenza tra il soggetto che conferisce la procura alle liti (l’assistito) e il soggetto che conferisce l’incarico (il cliente). Infatti, può accadere che la posizione del cliente venga assunta non dal patrocinato, ma da chi ha richiesto per lui l’opera professionale, si pensi al genitore che chieda all’avvocato di difendere il figlio. Tale distinzione emerge anche nel codice deontologico, ove all’art. 23 c. 2 si dice espressamente che “L’avvocato, prima di assumere l’incarico, deve accertare l’identità della persona che lo conferisce e della parte assistita”. Pertanto, il mandato di patrocinio può derivare:

  • dalla stessa parte rappresentata in giudizio (assistito),
  • da un altro soggetto che abbia assunto a proprio carico l’obbligo del compenso (cliente).

La Suprema Corte afferma che, nell’ambito del contratto di prestazione d’opera intellettuale, il diritto al compenso scaturisce dal conferimento dell’incarico professionale, in cui il conferente abbia chiaramente manifestato la volontà di avvalersi dell’attività dell’avvocato. Da ciò discende che «il cliente del professionista non è necessariamente colui nel cui interesse viene eseguita la prestazione d’opera intellettuale, ma colui che, stipulando il relativo contratto, ha conferito incarico al professionista ed è conseguentemente tenuto al pagamento del corrispettivo» (Cass. 27466/2019; Cass. 16261/2016; Cass. 19596/2004; Cass. 7309/2000; Cass. 1244/2000).

Infine, per completezza espositiva, si ricorda che quando il cliente è una persona fisica, che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta (art. 3 c. 1 lett. a) d. lgs. 205/2006) viene qualificato come consumatore e si applica la disciplina consumeristica, ad esempio, in materia di foro (Cass. Ord. 11389/2018) o di clausole vessatorie.

4. Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato

Fatta la necessaria premessa sulla qualifica negoziale del rapporto tra avvocato e cliente, veniamo ora ad analizzare la tipologia dell’obbligazione assunta dal legale.           
Nell’ambito della classificazione delle obbligazioni, tradizionalmente, la dottrina e la giurisprudenza operano la distinzione tra:

  • obbligazione di mezzi ossia le obbligazioni in cui il debitore è tenuto a svolgere una prestazione a prescindere dal conseguimento di una determinata attività,
  • obbligazione di risultato vale a dire le obbligazioni in cui il debitore si obbliga a realizzare una determinata attività ( M. BIANCA, Diritto civile. L’obbligazione, 4, Milano, Giuffrè, 1993, 71 ss.).

In buona sostanza, con l’obbligazione di mezzi, il debitore non garantisce il risultato e, quindi, non può considerarsi inadempiente nel caso in cui non lo raggiunga; l’esempio tipico è quello del medico che si impegna a prestare la propria opera, ma non a guarire il paziente o dell’avvocato che si obbliga a difendere il cliente, ma non a vincere la causa. Viceversa, nell’obbligazione di risultato, la finalità da raggiungere viene dedotta in obbligazione e il suo mancato perseguimento configura un inadempimento. Inoltre, un’ulteriore differenza è ravvisabile in ordine prova dell’adempimento, infatti, nelle obbligazioni di mezzi, spetta al creditore dimostrare la negligenza del debitore, mentre nelle obbligazioni di risultato, vale la regola generale dell’art. 1218 c.c., ossia il debitore deve dimostrare che l’inadempimento sia dipeso da causa a lui non imputabile (F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, XV ed., Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011, 636).

Invero, tale distinzione pare superata e assume valore meramente descrittivo, infatti, ogni obbligazione postula la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, ma in misura diversa a seconda della tipologia dell’obbligazione (Cass. S.U. 577/2008). Ad esempio, è vero che l’avvocato non si impegna a vincere la causa, ma si impegna a proporre appello entro i termini di decadenza di cui all’art. 325 c.p.c. (così A. TORRENTE – P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, Giuffrè, 2013, 373). Pertanto, l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa efficiente del danno. Il parametro alla luce del quale valutare l’adempimento dell’avvocato è dato dalla diligenza professionale. Infatti, anche secondo la giurisprudenza, «la responsabilità professionale dell’avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza, da commisurare, ai sensi dell’art. 1176, secondo comma, c.c., alla natura dell’attività esercitata» (Cass. 23740/2018). Come dicevamo, nel tempo, la differenza tra obbligazione di mezzi e di risultato è andata a sfumare; infatti, la giurisprudenza ha ammesso sempre più frequentemente la responsabilità professionale dell’avvocato, benché il legale non possa garantire l’esito della lite. Attualmente, a fronte di un’accertata negligenza professionale – come l’omessa citazione di testimoni – seppure sia impossibile stabilire con certezza come si sarebbe evoluto il processo, è possibile accertare la responsabilità per colpa grave del professionista, sulla base di un giudizio prognostico rimesso al giudice di merito (vedasi paragrafo 11).

5. La diligenza del professionista medio

Ut supra ricordato, la giurisprudenza ritiene negligente il professionista che tenga una condotta diversa da quella che avrebbe osservato l’homo eiusdem generis et condicionis. Il professionista medio richiamato dall’art. 1176 c. 2 c.c. rappresenta il parametro di valutazione della condotta dell’avvocato che deve essere:

  • dotato di media attenzione e preparazione,
  • qualificato dalla perizia,
  • dotato degli strumenti tecnici adeguati al tipo di prestazione da svolgere.

L’avvocato medio non è mediocre, al contrario, deve risultare preparato, zelante e solerte (Cass. 13777/2018). È bene ricordare che il contratto di prestazione d’opera è connotato da una componente fiduciaria, pertanto, l’assistito rimette al legale l’operare le scelte che ritiene opportune per la sua tutela.

L’art. 1176 c. 2 c.c. si integra con l’art. 2236 c.c., le due norme sono in rapporto di complementarità (Cass. 499/2001). In particolare:

  • l’art. 1176 c. 2 c.c. costituisce la regola generale,
  • l’art. 2236 c.c. si applica solo allorché la prestazione importi la soluzione di problemi di particolare difficoltà.

L’art. 2236 c.c. dispone che se la prestazione del professionista intellettuale implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave; quindi, il professionista:

  • non risponde per colpa lieve,
  • solo nel caso in cui dimostri che la prestazione implicava la soluzione di problemi di particolare difficoltà.

Inoltre, l’art. 26 c. 3 del codice deontologico prevede che “costituisce violazione dei doveri professionali il mancato, ritardato o negligente compimento di atti inerenti al mandato o alla nomina, quando derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita”.

Diversa dalla negligenza è l’imperizia.

Secondo la giurisprudenza, l’imperizia del difensore è configurabile in caso di:

  • ignoranza o violazione di precise disposizioni di legge,
  • risoluzione, in modo errato, di questioni giuridiche prive di margine di opinabilità.

La scelta di una determinata strategia processuale può determinare la responsabilità del professionista, «purché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato sia valutata (e motivata) dal giudice di merito “ex ante” e non “ex post”, sulla base dell’esito del giudizio» (Cass. 11906/2016; Cass. 23740/2018)

6. Il dovere di informazione dell’avvocato

L’art. 27 del codice deontologico impone all’avvocato il dovere di informazione. In particolare, tra i vari doveri incombenti sul professionista, ricordiamo che il legale deve informare chiaramente la parte assistita, all’atto dell’assunzione dell’incarico:

  • sulle caratteristiche e sull’importanza dell’incarico conferito,
  • sulle attività da espletare,
  • precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione,
  • sulla prevedibile durata del processo e sugli oneri ipotizzabili
  • della possibilità di avvalersi del procedimento di negoziazione assistita,
  • della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione;
  • dei percorsi alternativi al contenzioso giudiziario,
  • ove ne ricorrano le condizioni, della possibilità di avvalersi del patrocinio a spese dello Stato,
  • della necessità del compimento di atti necessari ad evitare prescrizioni, decadenze o altri effetti pregiudizievoli relativamente agli incarichi in corso.

Sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’avvocato grava l’obbligo di informazione del cliente, oltre ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione dello stesso; egli è tenuto a sconsigliare il cliente dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole (Cass. 14597/2004; Cass. 10289/2015). Pertanto, la violazione del dovere di informazione costituisce un inadempimento contrattuale ed espone l’avvocato alla conseguente responsabilità. Inoltre, il mero rilascio della procura, necessaria all’esercizio dello ius postulandi, non è idoneo a dimostrare l’assolvimento del dovere di informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull’opportunità o meno di iniziare un processo o intervenire in giudizio (Cass. 14597/2004; Cass. 7708/2016).

Nondimeno, lo sforzo informativo dell’avvocato incontra dei limiti, infatti, il difensore non è tenuto a svolgere l’attività di persuasione del cliente al compimento (o meno) di un atto, perché si tratta di un compito ulteriore rispetto all’assolvimento dell’obbligo informativo, che risulta concretamente inesigibile, oltre che contrastante con il principio secondo cui l’obbligazione informativa dell’avvocato è un’obbligazione di mezzi e non di risultato (Cass. 10289/2015; Cass. 7708/2016). Ad esempio, se il cliente decide di non chiamare in garanzia il terzo, pur essendo stato informato dall’avvocato delle conseguenze giuridiche della mancata chiamata in garanzia, consistenti nell’impossibilità di rivalersi sul garante, non è configurabile una responsabilità del legale per non averlo persuaso ad agire altrimenti. In altre parole, l’obbligo informativo non comprende un obbligo di persuasione.

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7. L’obbligo dell’assicurazione professionale

Dal 15 agosto 2013 è stato imposto l’obbligo di assicurazione per tutte le professioni (DPR 137/2012). In particolare, la legge professionale forense, all’art. 12, prevede in capo agli avvocati l’obbligo di stipulare una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile derivante dall’esercizio della professione. La polizza deve comprendere anche la custodia di documenti, somme di denaro, titoli e valori ricevuti in deposito dai clienti. Tra i vari obblighi informativi gravanti sull’avvocato si segnala quello di rendere noto al cliente gli estremi della propria polizza assicurativa. Gli estremi delle polizze assicurative e di ogni loro successiva variazione sono comunicati al consiglio dell’ordine. La mancata osservanza delle predette disposizioni previste costituisce illecito disciplinare. La previsione normativa mira a tutelare il cliente dai possibili pregiudizi subiti a causa di una condotta negligente dell’avvocato, infatti, al polizza copre la responsabilità civile del legale per tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, causati anche per colpa grave, nello svolgimento della professione.

8. L’onere della prova

In materia di responsabilità professionale per la condotta inadempiente dell’avvocato, non è sufficiente allegare il non corretto compimento dell’attività, ma bisogna provare (Cass. 10526/2015):

  • la sussistenza del danno,
  • il nesso eziologico tra l’evento lesivo e la condotta negligente.

È fondamentale dimostrare che, ove l’avvocato avesse tenuto il comportamento dovuto, l’assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni. Diversamente opinando, manca la prova del nesso causale tra la condotta del legale, attiva o omissiva, ed il risultato derivatone (Cass. 1984/2016).

Per parte sua, l’avvocato deve provare di aver osservato le regole dell’arte, ossia di aver svolta la propria prestazione con la diligenza media richiesta dalla legge (art. 1176 c. 2 c.c.). Infatti, il legale si impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non al suo conseguimento. Pertanto, l’inadempimento dell’avvocato non può desumersi ipso facto dal mancato ottenimento dell’esito voluto dal cliente, ma va parametrato alla luce dei doveri relativi allo svolgimento dell’attività professionale.

Quindi, il danno derivante dall’omissione del professionista (ad esempio, la tardiva proposizione dell’appello o l’omessa produzione di documenti) è ravvisabile solo se, in base a criteri probabilistici, si accerti che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato raggiunto (ad esempio, il gravame sarebbe stato giudicato fondato, se fosse stato proposto tempestivamente) (Cass. 2638/2013; Cass. 1984/2016).

9. Cosa deve provare il cliente?

Richiamando quando detto nel paragrafo precedente, cosa deve provare il cliente che intende agire contro l’avvocato?  Abbiamo visto che non è sufficiente allegare il mancato corretto adempimento dell’attività professionale, ossia al patrocinato non basta dimostrare che il professionista abbia dimenticato di depositare dei documenti o non si sia adoperato per interrompere la prescrizione. Secondo la giurisprudenza della Corte (Cass. 2338/2013), occorre:

  1. verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del legale;
  2. accertare la sussistenza del danno;
  3. acclarare che, qualora l’avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, il suo assistito avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, in difetto manca la dimostrazione del nesso eziologico tra la condotta del legale (sia essa commissiva od omissiva) ed il risultato derivatone.

Il giudizio di cui sopra viene affidato a criteri probabilistici. Infatti, pur provato l’inadempimento del professionista per il negligente svolgimento della prestazione, il danno è una conseguenza solo se si accerta che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito (Cass. 22026/2004, Cass. 6967/2006, Cass. 9917/2010). In materia di responsabilità del professionista, quindi, il cliente è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno, ma anche che questo sia stato cagionato dall’insufficiente, inadeguata o negligente attività del professionista. In particolare, occorre dimostrare il fondamento dell’azione, che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata, e, quindi, la certezza che gli effetti di una diversa attività del professionista medesimo sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente, rimanendo a carico del professionista l’onere di dimostrare l’impossibilità della perfetta esecuzione della prestazione (Cass. 12354/2009).

10. Il giudizio probabilistico

Il danno cagionato da un’omissione (ad esempio, non aver notificato nei termini o non aver depositato un documento) o, in generale, da una condotta negligente, è ravvisabile solo se si accerta che, in base a criteri probabilistici, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito. In buona sostanza, l’affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica circa il probabile esito favorevole dell’azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita. In altre parole, la responsabilità dell’avvocato non deriva automaticamente dalla perdita della causa, ma occorre dimostrare, tramite un giudizio probabilistico, che la sostituzione della condotta colposa con quella esigibile avrebbe portato all’esito auspicato dal cliente (Cass. 10526/2015). Tale indagine è riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per eventuali vizi di motivazione (Cass. 6967/2006; Cass. 16846/2005). Una recente pronuncia, ribadendo il consolidato orientamento in materia, ha sostenuto che:

  • «l’affermazione di responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale implica una valutazione prognostica positiva – non necessariamente la certezza – circa il probabile esito favorevole del risultato della sua attività se la stessa fosse stata correttamente e diligentemente svolta; con la conseguenza che la mancanza di elementi probatori, atti a giustificare una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito dell’attività del prestatore d’opera, induce ad escludere l’affermazione della responsabilità del legale, in quanto, la responsabilità dell’esercente la professione forense non può affermarsi per il solo fatto del mancato corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se, qualora l’avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, il suo assistito avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando altrimenti la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale ed il risultato derivatone» (Cass. 17414/2019).

11. L’eccezione di inadempimento del cliente e la perdita del diritto al compenso

La violazione del dovere di diligenza da parte del professionista costituisce un inadempimento contrattuale da cui consegue, in applicazione del principio di cui all’art. 1460 c.c., la perdita del diritto al compenso. L’eccezione d’inadempimento può essere opposta dal cliente all’avvocato che abbia violato l’obbligo di diligenza professionale, ad esempio, omettendo di produrre un documento e di presenziare all’udienza di ammissione dei mezzi di prova; in tal caso, l’assistito deve dimostrare che la negligenza del professionista sia stata tale da incidere sui suoi interessi. Infatti, l’avvocato non può garantire l’esito favorevole auspicato dal cliente. Pertanto, il patrocinato può legittimamente rifiutare di corrispondere il compenso all’avvocato solo quando costui abbia espletato il proprio mandato incorrendo in omissioni dell’attività difensiva che, sia pur sulla base di criteri necessariamente probabilistici, risultino tali da aver impedito di conseguire un esito della lite altrimenti ottenibile (Cass. 25894/2016; Cass. 11304/2012; Cass. 6967/2006; Cass. 5928/2002). Poniamo il caso che la negligenza dell’avvocato sia consistita nell’omessa impugnazione (paragrafo 14 lett. b); in tale circostanza, se la mancata impugnazione ha vanificato tutta l’attività professionale precedente, il legale va considerato totalmente inadempiente, perché la prestazione non ha prodotto alcun effetto favorevole al cliente e nessun compenso è dovuto (Cass. 4781/2013; Cass. 2638/2016; in tema di mancata conversione del sequestro in pignoramento vedasi Cass. Ord. 24519/2018).

12. I termini di prescrizione

La responsabilità dell’avvocato nei confronti del cliente rientra nella responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., pertanto, il termine prescrizione è decennale (art. 2946 c.c.).

Un discorso particolare merita la decorrenza della prescrizione, infatti, la condotta negligente dell’avvocato (o del professionista in generale) può produrre i cosiddetti “danni lungolatenti”, ossia danni a decorso occulto. Nel tempo, la giurisprudenza si è orientata diversamente e, sul dies a quo, si segnalano due indirizzi contrapposti:

  1. la prescrizione decorre dal compimento dell’atto dannoso,
  2. la prescrizione decorre dal momento in cui il cliente ha la consapevolezza del danno.

Nel primo senso, ossia nel senso del decorso del termine prescrizionale dal compimento dell’atto dannoso, si registrano varie pronunce. L’art. 2935 c.c. stabilisce che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto può essere fatto valere. Secondo questo indirizzo giurisprudenziale, l’impossibilità di far valere il diritto deriva solo da cause giuridiche e non comprende gli impedimenti soggettivi (come l’ignoranza del cliente) o gli ostacoli di mero fatto. Quindi, il dies a quo del termine prescrizionale può decorrere sia dal momento del compimento dell’atto che dal momento in cui il danno si è manifestato esteriormente, purché, in questo ultimo caso, vi siano cause giuridiche impeditive ed ostative dell’esercizio del diritto e non meri impedimenti soggettivi.
Ad esempio, con riferimento all’attività di un notaio, che non abbia rilevato l’esistenza di pesi pregiudizievoli su un bene, il termine prescrizionale è stato fatto decorrere dal momento della redazione della scrittura, giacché solo dal momento del rogito l’acquirente subisce il danno derivante dall’ipoteca iscritta sull’immobile e non rilevata dal notaio (Cass. 21026/2014). In relazione all’avvocato, che ha ricevuto mandato per formulare un’opposizione a decreto ingiuntivo, ma ha proposto un’opposizione all’esecuzione immobiliare già iniziata, la Cassazione ha ritenuto che la prescrizione decorra dalla scadenza del termine per la proposizione dell’opposizione all’ingiunzione e, quindi, dalla data in cui il decreto è divenuto irrevocabile (Cass. 10578/2007).

Il secondo indirizzo, invece, ritiene che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno cominci a decorrere dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all’esterno e diventa oggettivamente conoscibile al cliente (Cass. 8703/2016; Cass. 3176/2016). Il dies a quo è fissato nel momento in cui il danno è conoscibile all’assistito, in quanto il danneggiato non si trova in uno stato di semplice ignoranza sull’esistenza di un danno da lui patito – come sostenuto dall’orientamento opposto – ma versa in una situazione di oggettiva impossibilità di riconoscere il danno e, quindi, di impedire il decorso del termine prescrizionale. Ad esempio, nel caso in cui l’avvocato abbia omesso di trascrivere la domanda giudiziale di cui all’art. 2932 c.c., secondo la Cassazione, la prescrizione decorre da quando il cliente ha appreso l’inadempimento del suo difensore; in particolare, il dies a quo parte dal trasferimento coattivo della proprietà del bene, in quanto solo da quel momento il pregiudizio si palesa al cliente (Cass. 16658/2007).

13. Responsabilità dell’avvocato e risarcimento dei danni: cenni

Le ipotesi più frequenti di responsabilità del professionista riguardano il mancato compimento di un atto che, invece, era dovuto, ad esempio, la mancata proposizione dell’impugnazione che ha determinato il passaggio in giudicato della sentenza o l’omesso compimento di atti interruttivi della prescrizione. Orbene, ai fini della quantificazione del danno non è sufficiente dimostrare l’omissione di un atto dovuto ma è necessario effettuare un giudizio controfattuale al fine di valutare cosa sarebbe accaduto se l’atto omesso fosse stato realizzato.

Come si quantifica il danno?

Occorre far riferimento alle regole generali, ossia il danneggiato deve dimostrare di aver patito un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale. Con riferimento al primo, una posta di danno che viene in rilievo è il danno da perdita di chance, inteso come la perdita dell’occasione favorevole, difficilmente dimostrabile dal cliente anche in virtù del fatto che la responsabilità dell’avvocato viene valutata su criteri probabilistici (guida sul danno futuro).

Circa il danno non patrimoniale, la giurisprudenza (Cass. 12280/2016) si è occupata del caso in cui un soggetto era stato condannato alla pena di sette anni di reclusione nel giudizio di primo grado e il suo avvocato aveva proposto tardivamente l’appello, determinando in tal modo l’impossibilità per il cliente di fruire del patteggiamento della pena ottenuto dagli altri coimputati nella misura di cinque anni e dieci mesi di reclusione, nonché di altri benefici. Ebbene, il pregiudizio di carattere non patrimoniale subito dal condannato non può essere risarcito applicando automaticamente i criteri elaborati dalla giurisprudenza penale per il ristoro del danno da ingiusta detenzione (235,83 euro al giorno), trattandosi di una condanna legalmente data e di detenzione legittima, ma va liquidato in via equitativa.

14. I casi più frequenti in cui l’avvocato può incorrere in responsabilità

Le fattispecie più frequenti di responsabilità professionale civile dell’avvocato, su cui ci si sofferma nella presente disamina, sono le seguenti.

  • Violazione dell’obbligo di informazione del cliente
  • Omessa o tardiva proposizione dell’impugnazione
  • Mancata indicazione di elementi probatori
  • Mancato compimento di atti interruttivi della prescrizione
  • Cause ad elevato rischio di soccombenza
  • Uso di mezzi difensivi pregiudizievoli al cliente
  • Errata individuazione del legittimato passivo
  • Imperizia ed errata strategia processuale
  • Responsabilità per l’attività del domiciliatario
  • Decadenza dalla costituzione di parte civile o dalla citazione dei testimoni ammessi al dibattimento

a. Violazione dell’obbligo di informazione del cliente

Come abbiamo visto (paragrafo 6), l’avvocato deve informare il cliente sullo stato della pratica e fornirgli tutte le informazioni necessarie. Vediamo alcuni casi:

  • Ad esempio, è responsabile l’avvocato che non informi il proprio assistito sulla possibilità di proporre impugnazione avverso il provvedimento, allorché vi sia la possibilità di ottenere una pronuncia favorevole (6859/2018).
  • Parimenti, è responsabile l’avvocato che, avendo ricevuto la procura ad agire, non intraprenda l’azione e non comunichi al cliente il proprio intendimento; l’avvocato è responsabile per non avere informato il cliente della impossibilità di espletare l’attività inerente al mandato (5617/1996). Infatti, agendo in tal guisa, impedisce al cliente di rivolgersi ad altri e fa decorrere i termini per agire, cagionando un danno.
  • È responsabile l’avvocato che, pur avendo rinunciato al mandato, non informi il cliente sulla necessità di porre in essere specifici atti giudiziari per impedire di incorrere in decadenze o altro.
  • Un’altra ipotesi di responsabilità può riguardare l’omessa informazione al cliente della possibilità che venga eccepita la prescrizione; anche se l’obbligazione dell’avvocato è di mezzi e non di risultato, l’«accertamento di un’eventuale prescrizione è da considerare dall’esercente la professione legale adempimento rutinario, preliminare già all’iniziale sommaria disamina degli elementi essenziali della questione affidatagli» (16023/2002).

b. Omessa o tardiva proposizione dell’impugnazione

Può accadere che l’avvocato depositi l’atto d’appello o atto omologo oltre i termini e che il giudice dichiari irricevibile l’impugnazione ovvero che non lo depositi affatto. Per accertare la responsabilità del legale, non è sufficiente allegare la circostanza che l’appello sia stato depositato oltre il termine, ma è necessario un giudizio probabilistico che dimostri il danno cagionato dal comportamento positivo omesso. In altre parole, occorre verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta dell’avvocato; in altre parole, bisogna accertare che, se il legale avesse tenuto il comportamento dovuto, in base a criteri probabilistici, il suo assistito avrebbe ottenuto il riconoscimento delle sue ragioni (Cass. 14644/2016).
Inoltre, nel caso in cui la mancata impugnazione abbia vanificato tutta l’attività professionale precedente, il legale va considerato totalmente inadempiente, perché la prestazione non ha prodotto alcun effetto favorevole al cliente e nessun compenso è dovuto (Cass. 4781/2013; Cass. 2638/2016).

c. Mancata indicazione di elementi probatori

La mancata menzione delle prove indispensabili per l’accoglimento della domanda costituisce manifestazione di negligenza dell’avvocato, salvo che dimostri 1) di non avervi potuto adempiere per fatto a lui non imputabile, 2) di avere svolto tutte le attività che potevano essergli richieste, «tenuto conto che rientra nei suoi doveri di diligenza professionale non solo la consapevolezza che la mancata prova degli elementi costitutivi della domanda espone il cliente alla soccombenza, ma anche che il cliente, normalmente, non è in grado di valutare regole e tempi del processo, né gli elementi che debbano essere sottoposti alla cognizione del giudice» (Cass. 8312/2011; Cass. 25963/2015). Ad esempio, è responsabile l’avvocato che, nel giudizio di accertamento della servitù, non produca l’estratto tavolare dimostrativo del diritto di servitù.

d. Mancato compimento di atti interruttivi della prescrizione

È negligente l’avvocato che non attivi tempestivamente la pretesa risarcitoria del proprio assistito e, così facendo, determini il compimento della prescrizione del credito verso alcuni dei condebitori solidali. Il legale, in tale circostanza, è responsabile del danno patito consistente nella perdita della possibilità di avvalersi di più coobbligati e di agire verso quelli più solvibili come le compagnie assicuratrici, nel caso di crediti derivanti da sinistri stradali (Cass. 11907/2016). Infatti, rientra nell’ordinaria diligenza richiesta al professionista compiere atti interruttivi della prescrizione, dato che non richiedono particolare capacità tecnica.    
La responsabilità dell’avvocato non è esclusa dalla circostanza che il cliente sia dotato di proprie cognizioni giuridiche, atteso che, dal momento del conferimento del mandato, il legale è investito della piena responsabilità della gestione della pratica (Cass. 10527/2015).

e. Cause ad elevato rischio di soccombenza

Nel caso di controversie di particolare difficoltà, tali da esporre il cliente ad un forte rischio di soccombenza, l’attività dell’avvocato deve essere svolta diligentemente, al fine di limitare il pregiudizio del cliente. Quindi, il legale non può accettare una causa che ritiene “persa” e, poi, disinteressarsene sul presupposto che non vi sia possibilità di ottenere un esito favorevole. Egli deve attivarsi, ad esempio, cercando una soluzione transattiva, ove possibile. In caso di assoluta inerzia, si configura la responsabilità professionale, giacché, con il suo comportamento, l’avvocato ha esposto il cliente all’incremento del pregiudizio iniziale (Cass. 15717/2010).

f. Uso di mezzi difensivi pregiudizievoli al cliente

L’avvocato viola il dovere di diligenza media laddove adotti mezzi difensivi pregiudizievoli al cliente, nonostante l’uso dei suddetti mezzi sia stato sollecitato dal cliente stesso, giacché la scelta della linea tecnica difensiva costituisce compito esclusivo del legale nell’esercizio della propria prestazione professionale. L’adozione di mezzi difensivi pregiudizievoli al cliente integra una violazione dell’art. 1176 c. 2 c.c. e «non è né esclusa né ridotta per la circostanza che l’adozione di tali mezzi sia stata sollecitata dal cliente stesso, essendo compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell’attività professionale (Cass. 20869/2004), peraltro essendo tenuto l’avvocato ad assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, non solo al dovere di informazione del cliente ma anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione dello stesso ed essendo tenuto, tra l’altro, a sconsigliare il cliente dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole (arg. ex Cass.14597/2004)» (Cass. 10289/2015).

È responsabile l’avvocato che, pur non avendo compiuto una scelta processuale erronea, cagioni un ritardo nella realizzazione dell’interesse del cliente. Ad esempio, nel caso in cui, pur essendo il credito fondato su prova scritta, il legale scelga di instaurare un procedimento ordinario, in luogo di uno monitorio (Cass. 17506/2010).

g. Errata individuazione del legittimato passivo

L’omessa osservanza della regola sulla legittimazione passiva costituisce fonte di responsabilità professionale dell’avvocato difensore (Cass. 10822/2020). Quindi, è responsabile l’avvocato che abbia notificato il ricorso tributario all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate sbagliato, precludendo al cliente la possibilità di impugnare il provvedimento e far valere le proprie difese. Nel caso di specie, si trattava di un ricorso per cassazione avverso la declaratoria della CTR (concernente l’Invim straordinaria per l’anno 1991) che doveva essere notificato all’Ufficio centrale dell’Agenzia delle entrate (e non a quello periferico).

h. Imperizia ed errata strategia processuale

È configurabile l’imperizia del professionista allorché questi:

  • ignori o violi precise disposizioni di legge,
  • ovvero erri nel risolvere questioni giuridiche prive di margine di opinabilità,

La scelta di una determinata strategia processuale può costituire fonte di responsabilità solo allorché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato voluto dal cliente sia valutata dal giudice di merito “ex ante” e non “ex post“, sulla base dell’esito del giudizio. Non è ravvisabile responsabilità professionale, nel caso di questioni su cui le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità, tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente (Cass. 26959/2017).

i. La responsabilità per l’attività del domiciliatario

L’avvocato è responsabile verso il cliente ed è tenuto a risarcire i danni causati dalla sua negligenza professionale e da quella del domiciliatario. Infatti, è il dominus a rispondere per l’attività svolta dal collega, non avendo quest’ultimo ricevuto alcun mandato dal cliente. Il professionista, quindi, deve risarcire i danni patiti, diretti e indiretti, in base ad un giudizio prognostico sull’esito della lite (Trib. Rimini 240/2016).

j. Decadenza dalla costituzione di parte civile o dalla citazione dei testimoni ammessi al dibattimento

In tali circostanze, la giurisprudenza ha affermato che: «il nesso di causalità tra l’omissione di attività difensiva da parte dell’avvocato e il negativo esito processuale può essere valutata, nella causa di risarcimento danni contro quest’ultimo, in termini di semplice probabilità, anziché di certezza. Nella specie è stato ritenuto che, ove non omessa, la citazione di testimoni avrebbe potuto determinare un esito favorevole al danneggiato nel processo penale per l’accertamento della responsabilità del danneggiante» (Cass. 1286/1998).

15. Responsabilità processuale aggravata: il danno punitivo (art. 96 c. 3 c.p.c.)

L’art. 96 c.p.c. dispone che:

  1. Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza.
  2. Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.
  3. In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.

La norma processuale mira a colpire la cosiddetta “lite temeraria” che ricorre allorché il soggetto abbia la consapevolezza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione (mala fede) ovvero sia in una condizione di ignoranza colpevole circa la sua fondatezza (colpa grave).

L’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c. configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata del primo e del secondo comma. Essa è tesa a scoraggiare l’abuso dello strumento processuale; a differenza delle altre due ipotesi, per la sua applicazione, non è necessario il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave. Al contrario, è sufficiente una condotta integrante l’”abuso del processo”, come aver agito o resistito pretestuosamente (Cass. 27623/2017; Cass. 15209/2018). Tale disposizione può considerarsi espressione del cosiddetto danno punitivo di derivazione statunitense, per la precisione, la giurisprudenza parla di “natura intrinsecamente non difforme dal danno punitivo” (Cass. S.U.16601/2017; Cass. Ord. 4136/2018). Ad esempio, costituisce abuso del diritto all’impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione:

  • basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata,
  • completamente privo di autosufficienza,
  • contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia.

Se ricorrono tali circostanze, il ricorso per cassazione «integra un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma destinato soltanto ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, a ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione» (Cass. 15209/2018).

Quindi, spetta all’avvocato effettuare le corrette valutazioni al fine di stabilire se effettuare o meno l’impugnazione. Nel caso in cui la parte subisca una condanna ex art. 96 c. 3 c.p.c., potrebbe agire contro il proprio legale, imputandogli di essere stato inadempiente per non aver svolto con diligenza la propria prestazione professionale nella valutazione del caso.

16. Responsabilità penale: cenni

Nel codice penale sono presenti varie fattispecie di reato riconducibili all’attività dell’avvocato, di seguito, vengono elencate le più importanti, si tratta segnatamente di reati contro l’amministrazione della giustizia.

  • Il reato di patrocinio o consulenza infedele (art. 380 c.p.) punisce il patrocinatore o il consulente tecnico, che, rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, arreca nocumento agli interessi della parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’Autorità giudiziaria; la fattispecie è aggravata se il colpevole ha commesso il fatto, colludendo con la parte avversaria ovvero se il fatto è stato commesso a danno di un imputato.
  • Il reato di altre infedeltà del patrocinatore e del consulente tecnico (art. 381 c.p.) sanziona il patrocinatore o il consulente tecnico che, in un procedimento dinanzi all’Autorità giudiziaria, presta contemporaneamente, anche per interposta persona, il suo patrocinio o la sua consulenza a favore di parti contrarie; la fattispecie è aggravata, se il patrocinatore o il consulente, dopo aver difeso, assistito o rappresentato una parte, assume, senza il consenso di questa, nello stesso procedimento, il patrocinio o la consulenza della parte avversaria.
  • Il reato di millantato credito del patrocinatore (art. 382 c.p.) punisce il patrocinatore che, millantando credito presso il giudice o il pubblico ministero che deve concludere, ovvero presso il testimone o l’interprete, riceve o fa dare o promettere dal suo cliente, a sé o ad un terzo, denaro o altra utilità, con il pretesto di doversi procurare il favore del giudice o del pubblico ministero, o del testimone, perito o interprete, ovvero di doverli remunerare.
  • Il reato di frode processuale (art. 374 c.p.) è commesso da chiunque, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, al fine di trarre in inganno il giudice in un atto d’ispezione o di esperimento giudiziale, ovvero il perito nella esecuzione di una perizia, immuta artificiosamente lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone; la stessa disposizione si applica se il fatto è commesso nel corso di un procedimento penale o anteriormente ad esso.
  • Il reato di intralcio alla giustizia (art. 377 c.p.) è commesso da chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria ovvero alla persona richiesta di rilasciare dichiarazioni al difensore nel corso dell’attività investigativa, o alla persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati. Il reato sussiste anche se l’offerta o la promessa non siano accettate ovvero allorché siano accettate ma la falsità non venga commessa.

Per completezza espositiva si citano anche il reato favoreggiamento personale (art. 378 c.p.) e reale (art. 379 c.p.), la falsa testimonianza (art. 372 c.p.), le false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria (art. 374 bis c.p.), l’induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (art. 377 bis c.p.), la rivelazione del segreto professionale (art. 622 c.p.) e molte altre fattispecie come i reati di falso.

17. Responsabilità disciplinare: cenni

L’avvocato deve rispettare il Codice deontologico forense, lo stabilisce la legge professionale (legge 247/2012), ove all’art. 3 c. 3 è disposto che l’avvocato, nell’esercizio della professione, debba uniformarsi ai principi contenuti nel codice deontologico emanato dal Consiglio Nazionale Forense (CNF). Il codice deontologico stabilisce le norme di comportamento che l’avvocato è tenuto ad osservare in via generale e, specificamente, nei suoi rapporti con il cliente, con la controparte, con altri avvocati e con altri professionisti. Il codice deontologico espressamente individua fra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare. La potestà disciplinare è rimessa al Consiglio distrettuale di disciplina (art. 50 legge 247/2012) e al CNF (art. 61 legge cit.).    
Tutto ciò premesso, la responsabilità disciplinare consiste nella violazione delle regole di condotta contenute nel codice deontologico e nella legge. La responsabilità disciplinare è autonoma rispetto a quella civile o penale (R. DANOVI, Manuale breve di ordinamento forense e deontologia, 2014, Giuffrè, Milano, 173 ss.).     
Da quanto sopra emerge che l’avvocato deve rispettare il codice deontologico (art. 3 legge 247/2012), la violazione delle norme deontologiche connesse all’esercizio del mandato può comportare una responsabilità del professionista. Ad esempio, potrebbe esporsi ad un’azione di risarcimento aquiliana (art. 2043 c.c.), l’avvocato che esponga la controparte a iniziative plurime in violazione dell’art. 66, a mente del quale il legale non deve aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte, quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita.

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