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Dopo avere esaminato tutte le principali questioni che, in tema di attività liquidatoria dell’attivo fallimentare, sono state affrontate dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, ci si sofferma sulle questioni di più ampio respiro, quali la natura giuridica delle vendite concorsuali e la responsabilità dell’organo gestorio nella fase liquidatoria.

Questo, in via di estrema sintesi, quanto approfondito da Andrea Penta, nel dossier pubblicato sulla rivista Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, il mensile di Ipsoa pensato per chi opera nell’ambito delle procedure concorsuali: avvocati, commercialisti, commissari giudiziali, curatori e consulenti del lavoro.

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Di seguito pubblichiamo un estratto integrale delle rivista.

Nella vecchia legge fallimentare, le modalità di vendita dei beni costituenti l’attivo erano fissate in termini generali dall’art. 105, mutuandole dalle norme del codice di procedura civile dettate in tema di espropriazione forzata, “in quanto compatibili con le disposizioni” contenute nella legge fallimentare agli artt. 106 e 108.

Con riferimento ai beni mobili, l’art. 106 prevedeva sostanzialmente due modalità: vendita ad offerte private o all’incanto (quest’ultima, peraltro, nella prassi utilizzata solo per opere d’arte, beni mobili registrati, beni di ingente valore o beni per i quali pervenivano più offerte di acquisto), cui la dottrina e la giurisprudenza avevano aggiunto quelle della vendita a mezzo commissario (in tal senso, Trib. Roma 18 aprile 1998, in Giur. mer., 2000, 353), della vendita a trattativa privata e della vendita a licitazione privata.

Alle vendite dei beni mobili non si estendeva il potere sospensivo previsto dall’art. 108, co. 3, l.fall. (Cass. 8 agosto 1997, n. 7389, in Mass. Giust. civ., 1997, 1379); né la possibilità di ricorrere all’aumento di un sesto (oggi di un quinto) previsto per le vendite immobiliari dall’art. 584 c.p.c. (in senso contrario Cass. 18 giugno 1997, n. 5466, ivi, 1998, 267). L’effetto traslativo della vendita, inoltre, sia che essa avvenisse con vendita all’incanto (art. 540 c.p.) sia che avvenisse ad offerte private, non era riconducibile al consenso del curatore (che non assumeva ruolo di parte), ma al pagamento integrale del prezzo, trattandosi di vendita giudiziale e non volontaria (Cass. 18 giugno 1995, n. 5446, in questa Rivista, 1998, 267).

Ciò posto, il codice fallimentare indicava le suddette modalità di vendita in via alternativa, con ciò intendendo attribuire sul punto piena discrezionalità ed esclusivo potere di scelta al giudice delegato.

Diversamente avveniva per i beni immobili, rispetto ai quali il giudice delegato doveva valutare, in primo luogo, l’utilità del sistema della vendita con incanto e, su proposta del curatore, solo se ritenuta più vantaggiosa, la vendita senza incanto (Cass. 24 febbraio 1979, n. 1220, in Mass. Giust. civ., 1979). Ad identiche conclusioni si giungeva in caso di vendita d’azienda che constava di beni immobili, dovendo essa avvenire nelle forme di cui all’art. 108 l.fall. (Cass. 7 maggio 1999, n. 4584, in Dir. fall., 1999, II, 449).

L’alienazione dei beni immobili poteva avvenire, comunque, solo nelle forme della vendita forzata con o senza incanto, mentre non era ammessa la vendita a trattativa privata (cfr., inter ceteros, Cass. 20 novembre 1998, n. 11728, in Mass. Giust. civ., 1998, 2399).

In quest’ottica, era considerato titolare di un interesse giuridicamente rilevante, tale da legittimarlo ad esperire azione di nullità del contratto di compravendita di un bene immobile rientrante nell’attivo fallimentare e venduto a trattativa privata, il terzo che avesse dedotto una posizione differenziata rispetto a quella della generalità dei potenziali partecipanti alla vendita con o senza incanto (Cass. 16 marzo 1994, n. 2510, in Foro it., 1995, I, 588).

Nella nuova legge fallimentare non è stato riprodotto il vecchio art. 106 e, quindi, non vi è più una specifica disposizione che disciplini le modalità di vendita dei beni mobili.

Le modalità di vendita dei beni del fallito sono ora fissate, in via generale e programmatica, dall’art. 107 l.fall., che detta una regolamentazione unitaria della disciplina liquidatoria, senza distinguere, differentemente dal passato, tra vendita di beni mobili e immobili e riservando al curatore la massima autonomia nelle scelte di liquidazione.

Vi è piena libertà, per il curatore, sia di adeguarsi ai modelli descritti dal codice di rito, ricorrendo a vere e proprie aste (con incanto, senza incanto, con offerta segreta oppure in busta chiusa), sia di prescinderne, ricorrendo alle cc.dd. gare informali ovvero forme di licitazione.

Ciò, fermo restando l’ineliminabile presupposto del ricorso a procedure competitive di selezione del miglior offerente.

Lo stesso art. 107 l.fall., inoltre, prevede la possibilità per il curatore di delegare le operazioni di vendita direttamente al g.d., con la conseguente applicazione, all’attività liquidatoria, della disciplina del codice di procedura civile, sia pure in quanto compatibile.

Se il curatore opta per procedure competitive non disciplinate dal codice di rito, quanto ai beni mobili, la vendita può avvenire secondo tutte le modalità praticate nella vigenza della vecchia legge fallimentare, compresa, quindi, la trattativa privata (in questo senso, Trib. Mantova 2 maggio 2007, in www.ilcaso.it).

Circa i beni immobili, invece, si assiste ad una inversione di tendenza rispetto al passato, essendo ormai nettamente privilegiato, pur in assenza di un espresso vincolo sul punto, il modello della vendita senza incanto.

Non solo, infatti, quest’ultima è caratterizzata da una procedura più snella e quindi, per ciò solo, preferibile (Trib. Bergamo 10 ottobre 2015, in www.ilcaso.it; Trib. Mantova 2 maggio 2007, cit.), ma è anche caratterizzata da ulteriori vantaggi, quali il rischio più contenuto di interferenze esterne e l’irrevocabilità ex lege dell’offerta presentata dalla parte. Ne consegue che non è necessaria la presenza dell’unico offerente all’udienza di vendita, non dovendo questi espletare alcun incombente, né manifestare alcun consenso (Cass. 10 marzo 2011, n. 5765, in Guida dir., 2011, 23, 74), non potendo il giudice prendere in considerazione successive offerte, ancorché in aumento.

Inoltre, coerentemente con quanto sostenuto ante riforma, (infra alios, Cass. 7 ottobre 1975, n. 3184, in Giur. it., 1975, I, 1800), la giurisprudenza ha escluso che la vendita dei beni immobili del fallimento avvenga a trattativa privata diretta tra curatore e terzo, senza che altri soggetti abbiano avuto la possibilità di partecipare alla liquidazione con le proprie offerte (Cass. 20 dicembre 2011, n. 27667, in Mass. Giust. civ., 2011, 12, 1799). Le vendite di beni immobili ciò nonostante concluse dal curatore con questa modalità sono nulle ai sensi dell’art. 1418 c.c. per violazione delle norme imperative disciplinanti il procedimento di liquidazione dell’attivo fallimentare (infra alios, Cass. 10 maggio 2017, n. 11464, in www.ilcaso.it; Cass. 24 febbraio 2004, n. 3624, ivi, 2005, 291).

Diversamente, pare ammissibile la vendita di beni immobili mediante transazione autorizzata dal giudice delegato, in quanto il negozio transattivo ha un oggetto più ampio della vendita, essendo destinato, attraverso reciproche concessioni, alla definizione di una oggettiva situazione di litigiosità tra le parti (Cass. 14 ottobre 2008, n. 25136, in Corr. giur., 2008, 1645).

Nell’ipotesi in cui il curatore decida di procedere a gare formali, ovvero deleghi al giudice le operazioni di vendita, deve soggiacere alla disciplina prevista per le vendite forzate dal codice di rito, in quanto compatibile con la disciplina fallimentare.

Risulta utile, pertanto, scrutinare la compatibilità delle norme del codice di rito, con la disciplina delle vendite fallimentari.

Dovendosi osservare tendenzialmente le norme del codice di rito, il subprodecimento liquidatorio sarà caratterizzato dall’ordinanza di vendita, da quella di aggiudicazione e dal decreto di trasferimento finale.

Procedendo più nel dettaglio, certamente compatibili, secondo la prevalente giurisprudenza sono gli artt. da 570 a 575 c.p.c. in tema di vendita senza incanto, nonché gli artt. 576, 580, comma 2, 585, comma 2 (Trib. Roma 9 giugno 1999, in Foro pad., 2000, I, 301), 586 (Cass. 25 luglio 2002, n. 10909, ivi, 2003, 725, quanto alle spese di cancellazione) e 587 (Cass. 6 settembre 2006, n. 19142, in questa Rivista, 2007, 2, 157) in tema di vendita con incanto.

In particolare, quanto all’applicabilità dell’art. 586 c.p.c., la S.C. ha ammesso che, non rappresentando quello dettato dalla disposizione in ordine al riparto delle spese un principio inderogabile e non avendo esso ad oggetto situazioni soggettive indisponibili, il giudice delegato al fallimento ben può, con il proprio provvedimento, porre le spese di cancellazione delle trascrizioni o iscrizioni gravanti sull’immobile trasferito a carico dell’aggiudicatario (Cass. 25 luglio 2002, n. 10909, cit.).

L’ordine di liberazione di cui all’art. 560 c.p.c. può essere emesso dal giudice delegato in ambito fallimentare anche quando il curatore abbia scelto quale modalità di vendita dei beni immobili le procedure competitive ai sensi dell’art. 197, comma 1, l.fall., risultando possibile ricorrere alle norme dell’espropriazione forzata per regolare fattispecie non espressamente previste dalla legge fallimentare (Trib. Mantova 13 ottobre 2016, ivi, 2017, 208 ss.).

Quanto all’espropriazione di beni indivisi (v. postea), la giurisprudenza ha ritenuto applicabile tanto l’art. 600 c.p.c. (Trib. Genova 17 aprile 1997, ivi, 1997, 1231), che l’art. 601 c.p.c. (Trib. Napoli 25 giugno 2002, in Giur. comm., 2004, II, 240).

Infine, sono applicabili alle vendite fallimentari anche le disposizioni di cui agli artt. 532 e 533 c.p.c. che disciplinano la vendita a mezzo commissionario, stante il richiamo operato dall’art. 107 l.fall. ai “soggetti specializzati” (in tal senso, Trib. Roma 18 aprile 1998, in Giur. mer., 2000, 353).

Diversamente, si esclude l’applicabilità degli artt. 615 e 617 c.p.c., atteso che i provvedimenti adottati in sede fallimentare sono reclamabili ai sensi dell’art. 26 l.fall. (fra le altri, Cass. 23 settembre 2002, n. 13825, ivi. 2003, 837). Ne consegue che, in caso di mancata previa proposizione del reclamo ex art. 26 l.fall., è inammissibile il ricorso per cassazione proposto direttamente avverso il decreto di trasferimento del bene immobile (Cass. 22 gennaio 2009, n. 1610, in Mass. Giust. civ., 2009, 1, 98). Ove, ciò nonostante, nei confronti del decreto del giudice delegato venga esperita impugnazione ordinaria, l’inammissibilità della stessa è rilevabile d’ufficio, anche in sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza del tribunale, che dovrebbe quindi essere cassata senza rinvio (Cass. 14 settembre 1999, n. 9797, ivi. 2000, 700).

Questione particolarmente dibattuta in giurisprudenza concerne l’applicabilità dell’art. 584 c.p.c. (offerte dopo l’incanto) alla vendita immobiliare disposta in sede di liquidazione dell’attivo. Si assiste, invero, ad un contrasto tra una parte della giurisprudenza di legittimità, che ha escluso l’applicabilità dell’istituto dell’aumento di un quinto, ritenendo la suddetta disciplina non compatibile con l’esigenza di realizzare, nel comune interesse dei creditori, un ricavato quanto più possibile corrispondente al giusto prezzo dell’immobile (Cass. 3 novembre 1992, n. 11887, in Foro it., 1994, I, 1158), ed un altro orientamento della stessa Corte, il quale, in passato, aveva ritenuto che il rinvio alle disposizioni del codice di procedura civile contenuto nell’art. 105 l.fall. comprendesse anche la disposizione dettata dall’art. 584 c.p.c. (Cass. 28 giugno 2006, n. 14979, in Giust. civ., 2007, 6, 1420, nel richiamare l’analogo potere previsto dall’art. 586, comma 1, c.p.c. in sede di esecuzioni immobiliari). In particolare, mentre secondo il primo indirizzo le offerte in aumento del prezzo rileverebbero (non come condizioni per procedere ad una nuova gara, ma) solo come indici della sproporzione – per difetto – del prezzo raggiunto dall’immobile rispetto a quello “giusto”, indipendentemente dalla forma e dalle modalità della vendita (con o senza incanto), nonché dall’osservanza della disciplina delle offerte successive all’incanto dettata dall’art. 584 c.p.c., per il secondo siffatta disposizione non sarebbe incompatibile con l’art. 108 l.fall., che prevede il generale potere del giudice delegato di sospensione della vendita nel caso in cui il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto. A voler prestare adesione all’orientamento favorevole, la cauzione che, ai sensi dell’art. 584 c.p.c., dovrebbe accompagnare la eventuale offerta in aumento dopo l’incanto andrebbe percentualmente commisurata al prezzo contestualmente proposto dall’offerente, e non a quello di aggiudicazione provvisoria scaturito dal primo incanto (Cass. 9 gennaio 2013, n. 335, in Mass. Giust. civ., 2013).

Contrastata è anche l’applicabilità del potere del giudice delegato di sospendere la vendita ex art. 586 c.p.c. Sul punto la giurisprudenza prevalente (Cass. 23 febbraio 2010, n. 4344, in Mass. Giust. civ., 2010, 2, 261; Cass. 16 aprile 2007, n. 23799, in Mass. Giust. civ., 2007, 11) ha ritenuto inapplicabile la disposizione, in ragione dell’esistenza della disciplina speciale dettata dall’art. 108 l.fall., secondo cui il giudice può esercitare il suddetto potere non solo quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto, ma anche a fronte di gravi e giustificati motivi.

Quanto alle spese del rogito notarile successive all’aggiudicazione di un bene immobile, va ricordato che, in tema di vendita forzata, il giudice dell’esecuzione, o quello delegato al fallimento, può, con proprio provvedimento, porre le spese della cancellazione delle trascrizioni o iscrizioni gravanti sull’immobile trasferito a carico dell’aggiudicatario, anziché a carico del debitore, o della massa fallimentare, come disposto dagli artt. 2878 c.c. e 586 c.p.c. (nonché art. 105 l.fall., oggi 108), poiché il principio dell’obbligo del pagamento delle spese predette a carico del debitore, o della massa fallimentare, non può dirsi inderogabile, non essendo tale inderogabilità sancita da alcuna norma di legge, e non avendo esso ad oggetto statuizioni soggettive indisponibili” (Cass. 25 luglio 2002, n. 10909, ivi, 2003, 725).

Da ultimo, la S.C. ha chiarito che la sospensione per trecento giorni dell’esecuzione forzata, accordata dall’art. 20, comma 4, L. n. 44 del 1999, alle vittime dei delitti di estorsione o di usura, si applica ai termini in scadenza o scaduti ed alle vendite forzate che siano state disposte, nell’ambito delle procedure fallimentari in corso, entro un anno “dall’evento lesivo”, essendo la ratio della detta norma comune a tutte le restanti moratorie previste dai commi 1, 2 e 3 dell’art. 20 citato (Cass. 19 aprile 2016, n. 7740, ivi, 2017, 600).

Nel vigore della precedente formulazione la sospensione della liquidazione poteva essere disposta, anche d’ufficio, limitatamente alla liquidazione di beni immobili, qualora il giudice ritenesse che il prezzo offerto fosse inferiore a quello giusto, anche dopo l’aggiudicazione (Cass. 11 agosto 2004, n. 15493, in Mass. Giust. civ., 2004, 7-8; in passato, cfr. Cass. 26 ottobre 1981, n. 5580, in Foro it., 1982, I, 601) e, in base ad una lettura particolarmente estensiva, addirittura dopo il versamento del prezzo (inter ceteros, Cass. 23 settembre 2003, n. 14103, in D&G, 2003, 39, 106), fino a quando non fosse stato emesso il decreto di trasferimento del bene (Cass. 26 agosto 2004, n. 16994, in Mass. Giust. civ., 2004, 7-8; Cass. 29 agosto 2003, n. 12701, in Dir. prat. soc., 2005, n. 4, 86).

Intervenuto il decreto di trasferimento del bene, infatti, il maggior prezzo da taluno offerto costituirebbe semplicemente un criterio di valutazione della congruità della motivazione circa il “giusto prezzo” (Cass. 9 giugno 2010, n. 13896, in Giuda dir., 2010, 45, 56).

Le ragioni sottese alla suddetta interpretazione estensiva risiedevano nelle esigenze pubblicistiche (Cass. 25 luglio 2008, n. 20466, in Mass. Giust. civ., 2008, 7-8, 1207, e Cass. 2 giugno 1999, n. 5341, in Foro it., 1999, I, 3259) che informano la procedura, la quale deve tendere alla massima realizzazione delle attività (Cass. 9 giugno 2010, n. 13896, in Giuda dir., 2010, 44, 79).

Il potere di sospendere la vendita, tuttavia, ancorché non fosse stato emesso il decreto di trasferimento, recedeva a fronte della definitività dell’effetto traslativo, quando, aggiudicato l’immobile all’incanto e pagato il prezzo dall’aggiudicatario, fossero presenti i presupposti per la chiusura del fallimento (Cass. 30 gennaio 2009, n. 2433, in Foro it., 2009, 9, 2384).

Quanto alla nozione di “giusto prezzo”, rispetto alla quale valutare la sussistenza di una notevole inferiorità di quello raggiunto, la giurisprudenza non riteneva sufficiente la mera comparazione tra prezzo offerto in sede di aggiudicazione e ipotetico astratto valore del bene, richiedendo, piuttosto, la sussistenza di elementi seri ed idonei, quale veniva ritenuta la presenza di un’offerta superiore al prezzo di aggiudicazione, essendo questo un dato di assoluta concretezza in ordine alla possibilità di ricavare dalla liquidazione un prezzo maggiore di quello risultante dall’aggiudicazione (Cass. 11 agosto 2004, n. 15493, cit.; Cass. 9 giugno 2010, n. 13896, in D&G. online 2010).

Al potere del giudice di sospendere le operazioni di vendita per ingiustizia del prezzo si aggiungeva quello di revocare il proprio provvedimento di autorizzazione alla vendita di beni mobili o immobili del fallimento, ex art. 487 c.p.c., per ogni vizio di legittimità che lo inficiasse sino all’emissione del decreto di trasferimento (Cass. 2 giugno 1999, n. 5341, in Studium oecon. 2000, 133).

Attualmente, il potere di sospendere le operazioni di vendita ex art. 108 l.fall. può essere esercitato dal giudice delegato se prima e dopo la gara risulta che ricorrono “gravi e giustificati motivi” e sempre che la richiesta di sospensione provenga dal fallito o da altri interessati, tra i quali rientrano, secondo la giurisprudenza di merito, anche coloro che abbiano proposto il concordato fallimentare (Trib. Mantova, Sez. II, 20 febbraio 2007, in Giur. comm., 2008, 3, 715).

Il legislatore, pertanto, ha pretermesso l’iniziativa ufficiosa, ma ha esteso l’ambito di applicazione della norma anche alle vendite di beni mobili e a valutazioni di merito.

Sull’istanza degli interessati, il giudice delegato provvede con decreto motivato, soggetto al reclamo ex art. 26 l.fall., ma non ricorribile in Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., tenuto conto che il provvedimento con cui si rigetta un’istanza di sospensione non ha contenuto decisorio (Cass., SS.UU., 1° ottobre 1993, n. 9801, in Mass. Giust. civ., 1993, 1440; Cass. 14 luglio 1992, n. 8521, in Giur. it, 1993, I, 1, 986).

La nozione di giusto prezzo va ricavata, ora, tenuto conto delle condizioni di mercato, vale a dire con riferimento a parametri di sicura attendibilità merceologica, desunti dalla posizione dell’immobile, dalle sue caratteristiche interne ed esterne, dal suo pregio storico e da tutti gli elementi influenti sulla valutazione commerciale (Cass. 23 febbraio 2010, n. 4344, in Mass. Giust. civ., 2010, 2, 261), esistenti al momento in cui è domandata la sospensione (Cass. 18 aprile 2003, n. 6269, in Giur. it., 2004, 1620).

Il riferimento alle condizioni di mercato contenuto nella norma novellata offre al giudice un ulteriore parametro di giudizio, atteso che la mancanza di un criterio quantitativo cui correlare l’ingiustizia del prezzo dell’offerta implicava che, anche la presentazione di un’offerta in aumento rispetto al prezzo di aggiudicazione, non costituisse, di per sé, requisito sufficiente per disporre la sospensione (Cass. 22 gennaio 2009, n. 1610, in Mass. Giust. civ., 2009, 1, 98).

La necessità di individuare ulteriori elementi ai fini della valutazione ha indotto, così, il legislatore, a superare l’orientamento diffusosi vigente il testo pre-riforma, secondo cui, nella valutazione del giusto prezzo dell’offerta, non dovesse tenersi conto del prezzo di mercato (Cass. 6 ottobre 1998, n. 9908, in Mass. Giust. civ., 1998, 2031).

Peraltro, il “prezzo giusto”, da determinarsi oggi tenendo conto delle condizioni di mercato, non coincide con il valore di stima del bene (Cass. 5 dicembre 2008, n. 28836, in Mass. Giust. civ., 2008, 12, 1743; Trib. Ivrea 11 ottobre 2012, ivi, 2013, 1472 ss.), onde la stima eventualmente redatta ai sensi dell’art. 107 l.fall. non può rappresentare un vincolo insormontabile per l’esercizio del potere riconosciuto al giudice delegato dall’art. 108 l.fall.

Alla luce di tutto quanto sopra, pertanto, è evidente che l’esistenza della notevole sproporzione tra la nuova offerta e il prezzo di aggiudicazione, che legittima l’esercizio del potere di sospensione della vendita, deve congiuntamente risultare da una serie di elementi, in quanto, differentemente dal passato, essa rileva non già come condizione di riapertura della gara, ma come indice della “ingiustizia” del prezzo. E ciò anche al fine di evitare che vengano presentate offerte tardive in aumento al solo fine di interferire sul corretto espletamento delle condizioni di vendita (Cass. 22 gennaio 2009, n. 1610, in Mass. Giust. civ., 2009, 1, 98).

In ogni caso, possono rilevare fatti preesistenti alla vendita e non valorizzati adeguatamente in quella sede. Il potere del giudice delegato di sospendere la vendita, difatti, è stato riconosciuto dalla giurisprudenza anche quando non sia formulata una nuova offerta dalla quale emerga la sproporzione, ma sia acquisita, ad opera dell’ufficio, una nuova valutazione tecnica dalla quale risulti che il prezzo sino ad allora stabilito fosse notevolmente inferiore a quello giusto (Cass. 16 luglio 2010, n. 16755, in Mass. Giust. civ., 2010, 7-8, 1051; Cass. 5 aprile 2013, n. 8424, in D&G, 2013).

Diversamente non rileva, ai fini dell’accertamento della suddetta sproporzione, l’accertamento di illecite interferenze nel procedimento di vendita (Trib. Vicenza 19 luglio 2011, in Giur. mer., 2011, 10, 2425).

Proprio in quest’ottica si spiega la complessa distinzione tra il potere di sospensione ex art. 108 l.fall. e quello contemplato dall’art. 586 c.p.c., atteso che quest’ultima norma, pur assimilabile all’art. 108 l.fall., persegue lo scopo di contrastare tutte le possibili interferenze illegittime nel procedimento di determinazione del prezzo delle vendite forzate immobiliari, avendo riguardo, dunque, nella valutazione della sproporzione, anche al prezzo che sarebbe stato conseguito in assenza di interferenze illegittime (Cass. 9 maggio 2007, n. 23799, in Mass. Giust. civ., 2007, 11).

Dal canto suo, l’organo di gestione della procedura, fino a quando la vendita non si è perfezionata con il versamento integrale del prezzo, ben può decidere di sospenderla, se perviene, anche dopo che il prelazionario abbia dichiarato di volersi avvalere della prelazione sul prezzo scaturito all’esito della gara competitiva, un’offerta irrevocabile d’acquisto migliorativa per un importo non inferiore al dieci per cento del prezzo offerto (Trib. Campobasso 3 novembre 2016, ivi, 2017, 697 ss.). In tal caso non sarà necessaria una nuova gara, ma il prelazionario dovrà essere posto in condizione di esercitare la prelazione sul nuovo prezzo.

La deformalizzazione delle attività di vendita pone il problema di stabilire se la liquidazione operata dal curatore sia attività di vendita forzata o sia da assimilare alla liquidazione negoziale.

In passato, stante anche il richiamo al codice di procedura civile operato dall’art. 105 l.fall., l’opinione assolutamente prevalente in dottrina e in giurisprudenza (infra alios, Cass. 17 settembre 2002, n. 13583, ivi, 2003, 403; Trib. Nocera Inferiore 15 febbraio 2008, in DeJure, 2008), attribuiva alle vendite in sede fallimentare la natura di vendite giudiziali.

La natura esecutiva delle vendite fallimentari rappresentava un dato acquisito dalla prevalente giurisprudenza anche con riguardo alle vendite di beni mobili, ancorché realizzate secondo forme più simili all’autonomia privata (Cass. 23 settembre 2003, n. 14103, in Giust. civ., 2004, I, 78; Cass. 20 settembre 1993, n. 9624, in Dir. fall., 1994, II, 201).

Deponeva in questo senso anche la centralità del ruolo del giudice delegato nelle vendite fallimentari, nonché la circostanza che l’effetto reale del trasferimento del bene si verificava, analogamente alle vendite esecutive, con l’adozione del decreto di trasferimento ex art. 586 c.p.c., in caso di vendita di bene immobile; esclusivamente con l’integrale pagamento del prezzo, in caso di vendita di bene mobile (Cass. 18 giugno 1997, n. 5466, in questa Rivista, 1998, 267).

La mancata riproduzione nella nuova legge della precedente formulazione dell’art. 105 l.fall. ha indotto parte della giurisprudenza a rimeditare l’orientamento formatosi in tema di natura giuridica delle vendite fallimentari, riconoscendo a queste ultime quella di vendita volontaria e contrattuale (Cass. 25 ottobre 2010, n. 21830, in Guida dir., 2011, 3, 60; Cass. 22 settembre 2010, n. 20037, in D&G online 2010).

Ciò anche in quanto non è più il giudice delegato a disporre la vendita, ma questa è il frutto dell’autonoma volontà del curatore e del terzo acquirente, sia pure scelto non autonomamente, ma all’esito del procedimento competitivo, e l’effetto traslativo conseguirebbe alla stipulazione del contratto.

E, tuttavia, pur non potendo negare alcune possibili assonanze con le vendite privatistiche, la giurisprudenza, anche a Sezioni Unite (Cass., SS.UU., 16 luglio 2008, n. 19506, in Foro it., 2008, 11, 3149), ha confermato la natura giudiziale esecutiva delle vendite concorsuali, la quale non risulterebbe intaccata dalla nuova legge fallimentare.

In particolare, la vendita fallimentare non potrebbe mai equipararsi ad una vendita volontaria (Cass. 25 ottobre 2017, n. 25329, in www.unijuris.it) in quanto, pur dovendo procedere alla stipula di un contratto con l’aggiudicatario, il curatore fallimentare non assume il ruolo di parte e l’effetto reale della vendita non dipende dal suo consenso.

La circostanza che il perfezionamento della vendita fallimentare richieda la stipulazione di un contratto impone il ricorso alle norme civilistiche e, pertanto, se oggetto di cessione sono aziende (con o senza immobili), o immobili, ovvero quote sociali, l’atto deve essere stipulato con atto pubblico o con scrittura privata autenticata ex art. 2556, comma 2, c.c.; per gli altri beni si applicano le disposizioni civilistiche ex art. 2556, comma 1, c.c.

La natura forzata delle vendite fallimentari ex art. 107 l.fall. rende, peraltro, necessaria qualche riflessione sull’applicabilità delle disposizioni del codice civile normalmente invocabili, quali, in particolare, quelle contenute negli artt. 2919 ss., anche alla luce dell’attuale sistema normativo, riguardo agli effetti sostanziali delle vendite fallimentari.

Si tende a sostenere che l’offerta di acquisto del partecipante alla gara costituisca il presupposto negoziale dell’atto giurisdizionale di vendita, con conseguente applicabilità delle norme dettate in tema di effetti della vendita forzata dagli artt. 2919-2929 c.c. (Cass. 18 giugno 2010, n. 14760, in www.ilcaso.it; Cass. 17 febbraio 1995, n. 1730, ivi, 1995, 1013).

In particolare, è ritenuto pacificamente applicabile anche alle vendite fallimentari il disposto dell’art. 2919 c.c., con la conseguenza che l’acquisto di un bene in sede fallimentare ha natura di acquisto a titolo derivativo e non originario (Cass. 4 luglio 2012, n. 11151, in Guida dir., 2012, 37, 67; Trib. Bari 19 marzo 2012, in Giur. mer., 2012, 1315).

Attesa l’applicabilità dell’art. 2919 c.c., pertanto, restano opponibili all’acquirente i diritti dei terzi sull’immobile venduto, nei limiti in cui potevano essere fatti valere nei confronti del fallimento, perché trascritti prima della dichiarazione di fallimento (in questo senso, Cass. 28 gennaio 1995, n. 1048, in Giur. it., 1995, I, 1, 2060).

Viceversa, sono inopponibili all’aggiudicatario privilegi, pegni ed ipoteche gravanti sul bene aggiudicato, non sopravvivendo, i diritti reali di garanzia, alla vendita forzata (Cass. 14 novembre 2000, n. 14733, in Mass. Giust. civ., 2000, 2319).

Parimenti, dall’inquadramento nel genus delle vendite coattive (Cass. 7 giugno 1999, n. 5550, in Dir. fall., 2000, II, 523) la giurisprudenza ricava l’applicabilità alle vendite fallimentari della garanzia per evizione ex art. 2921 c.c. e l’inapplicabilità della garanzia per vizi ex art. 2922 c.c. (Cass. 4 luglio 2012, n. 11151, cit.; Trib. Bari 19 marzo 2012, cit.).

L’espressa applicabilità alle vendite giudiziarie della disciplina dell’evizione totale e parziale induce ad approfondire l’analisi delle ipotesi di acquisto del diritto di proprietà da parte di altro soggetto a titolo originario.

È opponibile al fallimento, secondo ormai costante giurisprudenza, non solo l’usucapione maturata prima ancora dello stesso, ancorché accertata dal solo accordo di mediazione trascritto (Trib. Torino 9 giugno 2016, n. 3276, in Ilquotidianogiuridico, Milano, 2016), ma anche quella maturata durante la procedura concorsuale, atteso che la redazione dell’inventario dei beni del fallito da parte curatore, senza la materiale apprensione dei beni stessi, non costituisce una causa interruttiva dell’usucapione (Cass. 4 settembre 2015, n. 17605, in Mass. Giust. civ., 2015, rv. 636403).

Parimenti, stante l’applicabilità dell’art. 2922 c.c. anche alle vendite fallimentari, la giurisprudenza di legittimità esclude l’invocabilità della garanzia per vizi ex art. 1490-1496 c.c. (Cass. 26 febbraio 2005, n. 4085, in Mass. Giust. civ., 2005, 2; Cass. 21 dicembre 1994, n. 11018, in Mass. Giust. civ., 1994), ad eccezione, tuttavia, dell’ipotesi di vendita aliud pro alio (Cass. 5 febbraio 2016, n. 2313, in D&G, 2016; Cass. 29 gennaio 2016, n. 1669, in Riv. not., 2016, 3, 530; Cass. 2 aprile 2014, n. 7708, in Guida dir., 2014, 26, 58; Cass. 19 dicembre 2013, n. 28419, in Guida dir. 2014, 10, 55; Cass. 11 ottobre 2013, n. 23140, in Riv. not., 2013, 6, 1385; Trib. Bari, Sez. I, 19 marzo 2012, n. 991, in Giur. mer., 2012, VI, 1315 ss.; Cass. 14 ottobre 2010, n. 21249, in Resp. civ. e prev. 2011, 7-8, 1571; Cass. 3 ottobre 1991, n. 10320, in Giur. it., 1992, I, 1, 715).

L’esclusione della garanzia per vizi ex art. 2922 c.c., pertanto, non sussiste in ipotesi di alterità tra bene oggetto dell’ordinanza di vendita e quello oggetto di aggiudicazione (si pensi al caso in cui l’area non risulta edificabile o manchi un requisito di agibilità), nella quale evenienza è fatta salva la proponibilità dell’azione di annullamento ai sensi degli artt. 1427-1429 c.c. avverso la vendita (cfr. Cass. 14 ottobre 2010, n. 21249, cit., la quale peraltro ammette la proponibilità dell’azione da parte del curatore fallimentare; Cass. 21 dicembre 1994, n. 11018, in Giust. civ., 1995, I, 917). Ciò, tuttavia, solo nelle ipotesi in cui la cosa oggetto della vendita risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione economico-sociale, quale risultante dagli atti del procedimento (Cass. 26 gennaio 2016, n. 1669, cit.).

Proprio la radicalità del vizio che caratterizza la vendita di aliud pro alio ha da sempre indotto la giurisprudenza ad interrogarsi sulla patologia da cui è affetto il relativo negozio, ritenendo talvolta configurabile un vizio di nullità sostanziale della vendita, per il venir meno del nucleo essenziale e dell’oggetto stesso del trasferimento (Cass. 3 dicembre 1983, n. 7233, in Giur. it., 1985, I, 1, 226), e talaltra, secondo l’opinione prevalente, un vizio della volontà (Cass. 9 ottobre 1998, n. 10015, in Mass. Giust. civ., 1998, 2048), che determinerebbe l’annullabilità del relativo negozio, a tutela dell’affidamento dell’acquirente (Cass. 3 ottobre 1991, 10320, cit.; Cass. 24 marzo 1981, n. 1698, in Mass. Giust. civ., 1981).

L’ipotesi della vendita di aliud pro alio deve essere tenuta distinta sia dalla presenza di vizi redibitori, cioè imperfezioni materiali del bene oggetto di vendita fallimentare che incidono sul suo utilizzo o valore, sia dalla carenza di qualità essenziali promesse, nel qual caso l’aggiudicatario, non potendo esperire né azione redibitoria, né azione estimatoria ex art. 1490 c.c. (Cass. 25 febbraio 2005, n. 4085, in Mass. Giust. civ., 2005, 2), non può che far valere azioni risarcitorie nei confronti del fallimento (Cass. 10 dicembre 2008, n. 28984, in Mass. Giust. civ., 2008, 12, 1758).

Deve, tuttavia, evidenziarsi che la giurisprudenza tende, sempre più frequentemente, a circoscrivere l’area di applicazione dell’art. 2922 c.c. Se da un lato, infatti, si tende a ritenere inoperante la disciplina di cui all’art. 1497 c.c., dall’altro, la giurisprudenza ha affermato l’applicabilità alle vendite giudiziarie della disciplina dell’art. 1489 c.c., che riconosce al compratore la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo (Cass. 29 aprile 2010, n. 10285, in Guida dir., 2010, 27, 59; Cass. 11 novembre 2008, n. 26953, in Arch. giur. circ. sin., 2009, 216; Cass. 9 luglio 2008, n. 18859, cit.; Cass. 7 marzo 2007, n. 5202, in Guida dir., 2007, 17, 79; Cass. 5 marzo 2007, n. 5066, cit.; Cass. 18 gennaio 2007, n. 1092, cit.; Cass. 13 maggio 2003, n. 7294, in Mass. Giust. civ., 2003, 5; Trib. Milano 30 novembre 2009, n. 14284, in Giust. a Milano 2009, 11, 73; Trib. Torino 5 ottobre 2009, in Foro pad., 2010, 2, I, 449), quando il bene risulta gravato da oneri o diritti reali o personali non apparenti, non dichiarati dal venditore e non conosciuti dall’acquirente.

In questo senso, a titolo meramente esemplificativo, la previsione dell’art. 1489 c.c. comprende l’ipotesi di un diritto di usufrutto gravante su una quota del compendio pignorato (Cass. 13 maggio 2003, n. 7294, in Mass. Giust. civ., 2003, 5); l’ipotesi del bene oggetto di vendita che sia gravato da un diritto personale di locazione (Cass. 4 novembre 2005, n. 21384, in Mass. Giust. civ., 2005, 7/8); l’ipotesi di compravendita avente ad oggetto una costruzione realizzata in difformità della licenza edilizia (Cass. 23 ottobre 1991, n. 11218, in Foro it., 1993, I, 928); il vincolo di inedificabilità gravante sul fondo compravenduto (Cass. 26 aprile 1983, n. 2854, in Mass. Giust. civ., 1983); la soggezione dei beni alienati a vincoli idrogeologici o forestali mai dichiarati nell’atto di vendita (Cass. 25 febbraio 2005, n. 4085, in Dir. fall., 2006, II, 439).

Alle vendite fallimentari, inoltre, è ritenuto applicabile anche l’art. 2929 c.c., che prevede la tutela dell’acquirente in caso di nullità degli atti precedenti la vendita, salvo il caso della collusione con il creditore procedente.

Attesa anche la ratio di garantire stabilità dei risultati dell’esecuzione forzata, la giurisprudenza (Cass. 5 aprile 2001, n. 5053, ivi, 2001, 929) tende a ricondurre i vizi dei procedimenti della vendita forzata, anche fallimentare, al regime delle nullità formali di cui agli artt. 156 ss.

Com’è noto, la vendita fallimentare è costituita da una pluralità di fasi autonome, strumentalmente propedeutiche a distinti provvedimenti, ciascuno dei quali è immediatamente e direttamente impugnabile con i mezzi specifici. Ne deriva che le situazioni invalidanti che si producono in ciascuna fase sono suscettibili di rilievo nel corso ulteriore del processo solo quando impediscono che il procedimento di liquidazione consegua il risultato che ne costituisce lo scopo (in questo senso, Cass., SS.UU., 27 ottobre 1995, n. 11178, in Arch. civ. 1996, 29).

Pertanto, eventuali nullità processuali pregresse si ripercuotono sull’atto finale di trasferimento sia quando esso abbia struttura negoziale, sia quando sia disposto con provvedimento. Ciò, tuttavia, fermo il disposto dell’art. 2929 c.c. secondo cui, avvenuto il trasferimento, detti vizi tendono a divenire irrilevanti.

È in atto, invero, una tendenza giurisprudenziale a restringere l’ambito di applicazione della regola contenuta nell’art. 2929 c.c., la quale non opera quando la nullità riguardi proprio la vendita o l’assegnazione, sia che si tratti di vizi che direttamente la concernano, sia che si tratti di vizi che rappresentino il riflesso della tempestiva e fondata impugnazione degli atti del procedimento liquidatorio ad essa prodromici (Cass. 16 aprile 2009, n. 9018, in Guida dir., 2009, 20, 85; Cass. 9 marzo 2006, n. 5111, in Mass. Giust. civ., 2006, 3; Cass. 1 aprile 2010, n. 7991, in Guida dir., 2010, 21, 74; Cass. 27 febbraio 2004, n. 3970, ivi, 2005, 289).

In questo senso, difatti, la giurisprudenza ha escluso l’applicabilità dell’art. 2929 c.c. alla vendita non preceduta da adeguata pubblicità, con la conseguente nullità dell’aggiudicazione dell’immobile, che, a sua volta, si era ripercossa sul decreto di trasferimento finale (Cass. 9 giugno 2010, n. 13824, in D&G online, 2010).

Deve, inoltre, precisarsi che, anche a voler prescindere dall’art. 2929 c.c., l’aggiudicatario fa comunque salvo il suo acquisto per effetto di usucapione ex art. 1158 c.c., potendosi, peraltro, ritenere intervenuta l’usucapione ex art. 1159 c.c. solo in presenza di un atto annullabile (Cass. 8 giugno 1992, n. 3466, in Mass. Giust. civ., 1982).

Ciò posto, appare questa la sede più opportuna anche per ricostruire il regime applicabile in caso di patologie nel procedimento di vendita.

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Deve, in primo luogo, evidenziarsi che proprio la circostanza che la vendita fallimentare sia strutturata come una successione di subprocedimenti rende possibile l’impugnazione di ciascun provvedimento solo quando sorretta da un interesse attuale e reale alla rimozione del medesimo. Ne consegue, ad esempio, che non è possibile impugnare l’ordinanza di aggiudicazione e/o il decreto di trasferimento, se il vizio attiene già al provvedimento di autorizzazione alla vendita (in questo senso, Cass. 17 dicembre 2012, n. 23212, in Mass. Giust. civ., 2012, 12, 1428).

Anche quando il procedimento di vendita fallimentare segue quello di esecuzione individuale previsto dal codice di rito, la liquidazione dell’attivo fallimentare resta governata dalla speciale disciplina endofallimentare, sicché è esclusa l’ammissibilità di mezzi di impugnazione ordinari, dovendo la stessa avvenire nella forma del reclamo ex art. 26 l.fall., (tra le altre, Cass. 23 settembre 2002, n. 13825, in questa Rivista, 2003, 837).

Quando, invece, la vendita si perfeziona mediante contratto concluso dal curatore con il terzo aggiudicatario, ancorché il primo non assuma il ruolo di parte, la giurisprudenza ha talvolta invocato il reclamo ex art. 36 l.fall. contro gli atti del curatore, talaltra il potere di sospensione ex art. 108, comma 1, l.fall. del giudice delegato.

Vigente la vecchia legge fallimentare, dottrina e giurisprudenza individuavano la disciplina della vendita della quota dei beni indivisi negli artt. 599 e 600 c.p.c.

La giurisprudenza (Cass. 20 dicembre 1985, n. 6549, in Mass. Giust. civ., 1985) consentiva al giudice di ordinare la separazione della quota e, conseguentemente la vendita, malgrado il dissenso di uno o più comproprietari, alla condizione dell’avvenuto accertamento della possibilità e/o convenienza della separazione della quota in natura.

Il potere di disporre la separazione della quota, oggi, pur non essendo più esercitabile dal giudice delegato, è riconducibile agli “altri atti di liquidazione” al cui esercizio è legittimato il solo curatore ex art. 107 l.fall.

Dalla ipotesi di separazione in natura della quota di bene indiviso va distinta quella della vendita di quota indivisa caduta nel compendio fallimentare.

Deve, a tal riguardo, evidenziarsi che la soluzione che si intende favorire è quella della vendita unitaria del bene, potendo il curatore farsi rilasciare dai proprietari delle quote non ricadenti nel compendio fallimentare, l’autorizzazione a vendere all’aggiudicatario della quota di pertinenza del fallimento anche le quote rimanenti, per lo stesso prezzo che sarebbe risultato dall’incanto (cfr., inter ceteros, Cass. 24 luglio 1997, n. 6919, in Mass. Giust. civ., 1997, 1263).

Nell’ipotesi in cui la vendita endofallimentare di beni immobili indivisi sia effettuata secondo le norme del processo civile in quanto compatibili, il giudice delegato ha il potere di convocare i comproprietari al fine di tentare la separazione in natura della quota di pertinenza del fallimento o di procedere alla vendita transattiva della quota ex art. 600, comma 2, c.p.c., ma non ha il potere di occuparsi del giudizio di divisione eventualmente autorizzato a norma della menzionata disposizione (Trib. Siracusa 26 marzo 2017, ivi, 2017, 737).

In caso di riscontro negativo da parte degli altri comproprietari, il fallimento può promuovere un giudizio di divisione, in costanza del quale, ai sensi dell’art. 601 c.p.c. (applicabile alla procedura fallimentare), il curatore non può procedere alla vendita della sola quota indivisa (Trib. Napoli 25 giugno 2002, in Giur. comm., 2004, II, 240).

Di diverso avviso è, invece, la giurisprudenza di legittimità, secondo cui non è ricorribile in cassazione il provvedimento con cui il tribunale abbia respinto il reclamo avverso l’ordinanza del giudice delegato di rigetto dell’istanza del comproprietario, non fallito, di sospensione della vendita di quota dell’immobile indiviso caduta nella massa fallimentare, sino alla definizione del giudizio di divisione, in quanto la vendita di quota indivisa non determina alcuna divisione del compendio comune, né comporta restrizione nei diritti degli altri comproprietari, poiché il rapporto di comunione non viene sciolto e la successiva divisione investe necessariamente anche la quota espropriata (Cass. 12 dicembre 2011, n. 26519, in Mass. Giust. civ., 2011, 12, 1761).

In via alternativa, ove la divisione in natura non sia possibile, ovvero non si ritenga di procedere alla divisione, la giurisprudenza suggerisce la vendita, anche solo senza incanto, secondo le forme previste dal codice di rito o la vendita a trattativa privata, previa gara o invitatio ad offerendum (Trib. Mantova 2 maggio 2007, in www.ilcaso.it, 11).

In giurisprudenza si assiste ad un contrasto tra chi ritiene nulle le divisioni stragiudiziali diverse dalla vendita fallimentare, anche se poste in essere in esecuzione di una transazione autorizzata dal tribunale fallimentare (Cass. 24 febbraio 2004, n. 3624, ivi, 2005, 291), e chi reputa legittima siffatta operazione quando la trattativa sia avvenuta in esecuzione di transazione autorizzata, in quanto il negozio transattivo ha un oggetto più ampio della vendita e non incorre, pertanto, nelle limitazioni previste dalla procedura fallimentare (cfr., in tal senso, Cass. 14 ottobre 2008, n. 25136, in Corr. giur., 2008, 1645).

Tutto ciò posto, premesso che la soluzione pratica preferibile è quella di addivenire alla vendita contestuale dell’intero, la necessità di introdurre in siffatta evenienza un giudizio di divisione verrebbe meno solo qualora si ritenesse, come parte della giurisprudenza di merito sostiene (Trib. Roma 21 maggio 1982, in Dir. fall., 1983, II, 833), che il fallimento determini sempre lo scioglimento della comunione. Diversamente, non sembra revocabile in dubbio che il giudice delegato non possa vendere, a pena di nullità, la quota del fallimento senza far precedere la vendita da un giudizio di divisione (in questi termini Cass. 5 marzo 2007, n. 5061, in Guida dir., 2007, 42).

Si discute, infine, se sia applicabile alle vendite fallimentari l’art. 732 c.c. Una parte della giurisprudenza (Cass. 30 gennaio 1986, n. 586, ivi, 1986, 748) è dell’idea che non sia nulla, per violazione della menzionata disposizione, la vendita all’asta della quota ereditaria indivisa del fallito (disposta dal giudice delegato al fallimento, senza previa notifica ai coeredi), poiché il diritto di prelazione che questi ultimi non sono stati posti in condizione di esercitare si converte nel diritto di riscatto della quota alienata nei confronti dell’acquirente. L’orientamento prevalente (in questo senso, Cass. 16 dicembre 1996, n. 11225, in Foro it., 1997, I, 80; Cass. 14 gennaio 1994, n. 339, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 183), tuttavia, esclude l’applicabilità dell’istituto alle vendite coattive, sulla base del rilievo per cui il relativo diritto presuppone alienazioni volontarie, potendo, a tutto concedere, il titolare del diritto prendere parte alla procedura e rendersi aggiudicatario del bene.

Com’è noto, il curatore, nell’ambito della liquidazione dell’attivo fallimentare, è stato voluto dal legislatore della riforma come il vero organo motore della procedura; il comitato dei creditori, dal canto suo, è chiamato a svolgere (attraverso i pareri) valutazioni di opportunità sulle attività di amministrazione; il giudice delegato, invece, può autorizzare il compimento dei soli atti conformi al piano di liquidazione e, anche prima della presentazione di quest’ultimo, la conclusione del contratto di affitto di azienda, in previsione di una più proficua vendita complessiva o di beni in blocco.

Ciò posto, è necessario individuare i settori principali nei quali possono sorgere ipotesi di responsabilità in cui l’organo gestorio nell’espletamento di questa attività.

In termini generali, in alcuni casi sarà configurabile una responsabilità esclusiva del curatore, in altri quella concorrente del curatore e dell’organo esponenziale dei creditori.

Il problema della responsabilità del curatore intercetta la questione della natura del sindacato del giudice delegato sugli atti esecutivi contenuti nel programma di liquidazione. Per la giurisprudenza di merito (Trib. La Spezia 31 maggio 2010, in DeJure, 2010; Trib. Roma 28 aprile 2009, in DeJure, 2010) il potere di controllo del giudice sugli atti esecutivi contenuti nel programma di liquidazione approvato dal comitato dei creditori è un potere limitato alla regolarità formale e alla legittimità sostanziale, cioè alla legalità e alla conformità degli atti da attuarsi rispetto a quelli previsti, restando esclusa ogni sua valutazione circa il merito del contenuto del programma.

Ne consegue che, differentemente dal passato in cui la inosservanza delle autorizzazioni del giudice delegato, intese quali “ordini”, determinava la revoca del curatore e la sua responsabilità, la giurisprudenza è tornata ad interrogarsi sulle conseguenze del compimento di atti negoziali da parte del curatore, in presenza di un vizio nel procedimento di autorizzazione.

Atteso il ruolo centrale del curatore nella liquidazione dell’attivo, lo strumento che maggiormente si presta per denunciare i vizi relativi alla procedura di autorizzazione è il reclamo ex art. 36 l.fall. proposto dal fallito e da ogni altro interessato (cfr. Cass. 9 marzo 1995, ivi, 1995, 1042). Secondo un altro orientamento, invece, il ricorso al solo strumento del reclamo è una tesi semplicistica e generalizzante (Cass. 17 luglio 1980, n. 4647, in Mass. Giust. civ., 1980; Trib. Milano 2 dicembre 1985, in questa Rivista, 86, 341), onde la necessità di interrogarsi anche su eventuali patologie dell’atto negoziale ciò nonostante stipulato.

Qualora l’atto cui accede l’autorizzazione non sia ancora perfezionato, l’accoglimento del reclamo determinerebbe l’annullamento dell’autorizzazione rilasciata che, solo secondo un orientamento minoritario (Cass. 17 luglio 1980, n. 4647, in Mass. Giust. civ., 1980; Cass. 8 agosto 1995, n. 8669, ivi, 1996, 195), si tradurrebbe nell’annullabilità della transazione stessa, che potrebbe essere fatta valere dal curatore nella duplice veste di portatore degli interessi della massa e di parte del contratto, e non anche dal terzo estraneo al contratto, ancorché creditore insinuato nel fallimento o soggetto interessato all’acquisto del bene oggetto della transazione.

L’inquadramento della patologia nell’ambito della categoria dell’annullabilità comporterebbe l’applicabilità dell’art. 1444 c.c., con la conseguenza che il contratto potrebbe essere convalidato dal contraente cui spettava l’azione di annullamento, cioè dal fallimento; in particolare, la convalida sarebbe possibile, oltre che attraverso l’attribuzione ex post al curatore dell’autorizzazione dapprima mancante, anche mediante l’esecuzione volontaria da parte del contraente legittimato ad agire per l’annullamento (Cass. 8 agosto 1995, n. 8669, cit.).

Tale orientamento, tuttavia, non risulta condiviso dalla giurisprudenza di legittimità prevalente, secondo cui la tesi dell’annullabilità dell’atto realizzato dal curatore in violazione dell’autorizzazione del giudice delegato non è sostenibile, atteso che in errore sarebbe incorso un soggetto (il giudice) che non assume la veste di contraente. Del resto, la deliberazione con cui il giudice delegato autorizza il curatore al compimento di un atto ha valore di atto interno alla procedura, e non può in alcun modo costituire accettazione di una proposta contrattuale da parte di tale organo (Trib. Milano 18 febbraio 1993, ivi, 93, 775).

Parimenti, non può sostenersi che la mancanza dell’autorizzazione del giudice delegato comporti l’annullabilità dei negozi ciò nonostante conclusi, non fosse altro perché, anche a voler aderire alla tesi minoritaria, la patologia, come già detto, potrebbe essere eccepita esclusivamente dal curatore; non invece dal terzo. La giurisprudenza, pertanto, ha preso ad interrogarsi su eventuali rimedi che il terzo contraente possa esperire avverso l’atto negoziale stipulato dal curatore in assenza o in violazione della prescritta autorizzazione.

Per una parte della giurisprudenza (Cass. 16 gennaio 1992, n. 499, ivi, 1992, 387; Cass. 5 giugno 1991, n. 6369, ivi, 1991, 1241) la tutela del terzo passerebbe per l’applicazione del principio generale enunciato dall’art. 1389 c.c., secondo cui, in assenza di ratifica ex post da parte del giudice delegato, il negozio concluso è (non invalido, bensì) inefficace (nei confronti dei creditori) ed il curatore che abbia contrattato eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli sarebbe responsabile del danno (sia pure nei limiti del c.d. interesse negativo) che il terzo contraente avesse sofferto per aver senza colpa confidato nella “validità” del contratto.

In questo senso (Cass. 25 agosto 1986, n. 5170, in Mass. Giust. civ., 1986), per l’esperimento dell’azione di responsabilità contro il falsus procurator (nel caso di specie il curatore), si ritiene non essere necessario che il terzo si sia preventivamente ed infruttuosamente rivolto al dominus (nel caso di specie il giudice delegato), né che abbia assegnato a questo un termine per pronunziarsi sulla ratifica, richiedendosi, invece, come unico presupposto oggettivo, il mancato intervento della ratifica del negozio concluso eccedendo i poteri.

Per quanto concerne il programma di liquidazione, può senz’altro configurarsi un’ipotesi di addebito nel caso in cui il piano preveda atti lesivi degli (o non contempli atti vantaggiosi per gli) interessi economici dei creditori o di quelli patrimoniali del fallito.

Allo stesso modo, la mancata apposizione dei sigilli o il mancato inventario di beni mobili appartenenti al fallito determina senz’altro una responsabilità per la mancata apprensione di oggetti liquidabili.

Secondo le norme dettate dagli artt. 752 ss. c.p.c., l’apposizione dei sigilli deve avvenire esclusivamente sui beni in una situazione esteriormente palese di disponibilità del debitore, applicando analogicamente la presunzione di cui all’art. 513 c.p.c. Nei casi, invece, di beni detenuti da terzi, che ne rivendichino la proprietà o, comunque, che si oppongano all’acquisizione dell’attivo fallimentare, non è possibile procedere né alla loro sigillatura, né, tantomeno, alla loro inventariazione o alla loro acquisizione con i cc.dd. decreti di acquisizione del giudice delegato, la cui legittimità è ora esplicitamente esclusa nell’ipotesi in cui i terzi rivendichino un proprio diritto incompatibile con l’acquisizione (Trib. Udine 26 marzo 2010, in www.ilcaso.it).

Nella fase più propriamente liquidatoria il curatore è tenuto, per quanto possibile, a far visionare i cespiti posti in vendita da parte dei soggetti potenzialmente interessati al loro acquisto, tenuto soprattutto presente che viene tendenzialmente esclusa, in favore dell’aggiudicatario del bene, la garanzia per vizi ai sensi dell’art. 2922 c.c. (v., sul punto, infra).

Come si è visto, l’esclusione di garanzia per i vizi della cosa, sancita dall’art. 2922 c.c. per la vendita forzata compiuta nell’ambito dei procedimenti esecutivi – applicabile anche a quella disposta in sede di liquidazione dell’attivo fallimentare – riguarda le fattispecie prefigurate dagli artt. 1490 a 1497 c.c., ma non l’ipotesi di consegna di aliud pro alio (Cass. 12 luglio 2016, n. 14165, in Mass. Giust. civ., 2016, rv. 640489).

Tale disciplina speciale si giustifica in ragione della peculiare natura del procedimento di vendita forzata, la quale realizza congiuntamente l’interesse pubblicistico, connesso a ogni processo giurisdizionale, e quello privato, dei creditori concorrenti e dell’aggiudicatario.

Nella fase liquidatoria, pertanto, la legge pretende dall’organo gestorio notevoli cautele, anche alla luce della professionalità dell’incarico, soprattutto in ordine alla esatta corrispondenza tra quanto rappresentato nella perizia di stima e la situazione obiettiva dei luoghi. È assodato, comunque, che l’eventuale accertamento di una negligenza del curatore, per omesso rilievo della non corrispondenza tra le risultanze della perizia del consulente d’ufficio e la condizione reale del bene da alienare, non potrebbe avere alcuna ripercussione negativa sulla impugnativa negoziale.

L’annullamento disposto a tutela dell’errante, infatti, annovera tra i suoi presupposti solo l’essenzialità e la riconoscibilità dell’errore, restando – almeno su questo piano – del tutto irrilevante l’inescusabilità del vizio del consenso che si sarebbe potuto evitare usando la normale diligenza (Cass. 13 marzo 2006, n. 5429, in Mass. Giust. civ., 2006, 3; Cass. 2 febbraio 1998, n. 985, in Giust. civ., 1999, I, 2491).

In proposito, va ricordato che, nel caso in cui i beni mobili oggetto di vendita in sede fallimentare risultino affetti da vizi redibitori, non è configurabile la garanzia prevista dall’art. 1490 c.c. neppure se la vendita abbia avuto luogo ad offerte private, ma solo una responsabilità attinente alla custodia dei beni inventariati ed alla vendita degli stessi nell’àmbito della procedura concorsuale e, dunque, un’obbligazione risarcitoria. Quest’ultima, in quanto correlata al compimento di atti tipici rientranti nelle attribuzioni del curatore, è posta a carico non dell’organo gestorio come persona fisica, ma del fallimento, iscrivendosi a tutti gli effetti nel novero di quelle elencate dall’art. 111, n. 1, l.fall.

La giurisprudenza ha, infatti, chiarito che, allorquando il curatore agisca nell’esercizio di quelle che sono le sue funzioni, pur avendo cagionato un danno ingiusto ai terzi, la responsabilità ricade sulla procedura di fallimento, per imputazione del fatto del rappresentante al rappresentato. Ne consegue che il credito risarcitorio va ricompreso nel novero dei crediti in prededuzione, a norma dell’art. 111, comma 1, n. 1, l.fall. (Cass. 10 dicembre 2008, n. 28894, in Mass. Giust. civ., 2008, 1758).

Qualora, pertanto, a fondamento della domanda di risarcimento dei danni, il compratore abbia fatto valere l’erronea descrizione dei beni in sede di inventario, con l’attribuzione di caratteristiche tecniche non possedute e senza il rilevamento di difetto di funzionamento, costituisce una questione di legittimazione passiva quella avente ad oggetto l’esistenza del dovere del curatore, convenuto in proprio, di subire il giudizio instaurato dall’attore, indipendentemente dall’effettiva titolarità passiva del rapporto controverso (cfr. Cass. 10 dicembre 2008, n. 28984, cit.).

Tra i compiti principali del curatore vi è quello di individuare nel singolo caso l’operazione più idonea a preservare l’integrità del patrimonio fallimentare, potendo anche apporre i sigilli ai locali dell’azienda ovvero dei beni del fallito.

Ed invero, nella procedura concorsuale l’individuazione dei beni del fallito, sia immobili che mobili, eventualmente anche presso terzi, avviene mediante l’apposizione dei sigilli, attualmente di competenza del curatore e non del giudice, e con l’inventario, il quale deve essere effettuato con le modalità previste dall’art. 769 c.p.c. (Trib. Udine 26 marzo 2010, in www.ilcaso.it).

Sul punto è opportuno precisare che è certamente configurabile un’ipotesi di responsabilità del curatore per “mala gestio” allorquando procuri un danno alla massa dei creditori non solo ritardando od omettendo le operazioni di sigillazione, ma anche perdendo la disponibilità dei beni dopo l’apposizione dei sigilli e la redazione dell’inventario. A seguito della sigillazione, infatti, i beni che ne sono oggetto escono dalla fera di disponibilità del possessore ed entrano in quella del curatore, il quale ne diviene di fatto custode ex art. 2051 c.c.

Può accadere, pertanto, che il curatore sia considerato responsabile, ad esempio, allorquando l’immobile assoggettato ad esecuzione immobiliare ante fallimento e successivamente liquidato in sede concorsuale sia rimasto privo di custodia tra la data dell’aggiudicazione e la data della consegna, risultando così danneggiato, onde la pretesa dell’acquirente al risarcimento dei danni dipendenti dalla negligenza nell’omessa custodia (Cass. 8 marzo 2009, n. 10599, in Mass. Giust. civ., 2009, 738).

In tal caso, in particolare, una volta intervenuta la sentenza dichiarativa di fallimento, il curatore subentra ex lege, a norma dell’art. 107 l.fall., al creditore procedente, in quanto si tratta di una sostituzione che opera di diritto, senza alcun intervento del curatore o autorizzazione del giudice dell’esecuzione. Ne consegue che, ove sia stato nominato un custode, anche la custodia dei beni pignorati si trasferisce immediatamente in capo al curatore, ex artt. 42 l.fall. e 559 c.p.c. (Cass. 16 luglio 2005, n. 15103, in Rep. Foro it., 2005, voce 534, 577 e 592).

In questa prospettiva, al curatore può essere imputabile un addebito nei confronti o della massa creditoria complessivamente intesa o di singoli creditori. L’ipotesi più frequente è quella della impossibilità di liquidare il bene, con un pregiudizio economico per tutti i creditori in termini di minor ricavato da distribuire.

Pertanto, l’abbandono dell’attivo fallimentare da parte del curatore privo di autorizzazione ex art. 35 l.fall. è fonte di responsabilità nei confronti della massa e può altresì determinare la mancata approvazione del rendiconto (cfr. Trib. Palermo 18 luglio 2002, ivi, 2003, 222).

Qualora si sostenesse che il curatore non abbia alcun potere di scelta circa l’apprensione dei beni, si dovrebbe ritenere esclusa qualsiasi forma di responsabilità dello stesso per avere inventariato e proseguito l’esecuzione su beni appartenenti a terzi. Tuttavia, tale considerazione, che poteva avere un fondamento nella vigenza della precedente normativa, appare contrastata dall’attuale formulazione dell’art. 25, n. 2, per cui non è possibile apprendere, neppure sulla base di un decreto di acquisizione emesso dal giudice delegato, quei beni sui quali terzi rivendichino un proprio diritto incompatibile con l’acquisizione.

Nel caso in cui vengano appresi all’attivo fallimentare beni mobili di proprietà di terzi, rinvenuti presso la casa o l’azienda del fallito, i terzi possono ottenere la restituzione dei cespiti su cui vantino pretese solo attraverso il procedimento di cui all’art. 103 (proponendo domanda di rivendica o di restituzione). In tale ipotesi è difficile configurare una responsabilità in capo al curatore.

Ai sensi dell’art. 25 l.fall., il giudice delegato ha la facoltà di adottare provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio del fallito, nonché il potere di emettere decreti di acquisizione alla procedura concorsuale di eventuali sopravvenienze attive, in possesso dello stesso fallito o del coniuge o di altri soggetti che ne contestino la spettanza al fallimento. Non sussiste, invece, il potere di disporre l’acquisizione di beni sui quali il terzo possessore rivendichi un proprio diritto esclusivo incompatibile con la loro inclusione nell’attivo fallimentare. In tal caso, il decreto del giudice, così come quello reso dal tribunale in esito al reclamo, devono ritenersi giuridicamente inesistenti, per carenza assoluta del relativo potere. Ne consegue che avverso i medesimi provvedimenti, non suscettibili di acquistare autorità di giudicato, non è esperibile il ricorso per cassazione, a norma dell’art. 111 Cost., restando in facoltà degli interessati di esperire un’actio nullitatis, in ogni tempo ed in ogni sede, al fine di ottenere una declaratoria di radicale nullità ed inidoneità a produrre effetti giuridici (Cass. 14 luglio 1997, n. 6353, in Mass. Giust. civ., 1997, 1187).

Persino la eventuale vendita dei beni così acquisiti posta in essere dalla curatela sarebbe affetta da nullità assoluta, trattandosi di effetto derivato dal provvedimento abnorme di acquisizione.

In via generale, la diligenza del curatore deve caratterizzare non solo il compimento dell’atto, il suo contenuto e le modalità di attuazione, ma anche la sua tempistica, ravvisandosi una condotta negligente del curatore nel caso in cui abbia compiuto l’atto in ritardo rispetto al tempo ordinariamente richiesto. Ne consegue che il curatore potrebbe essere condannato a pagare in favore del Ministero della Giustizia la somma che quest’ultimo sia tenuto, a sua volta, a corrispondere al fallito per la irragionevole durata della procedura (Corte dei conti 12 dicembre 2005, n. 22982, in Guida dir., 2006, 97).

L’attività dell’organo gestorio, tuttavia, risulta essere molto delicata, dovendo questi adottare soluzioni celeri ma, al tempo stesso, ben ponderate, tali cioè che non si rivelino antieconomiche. Basti pensare, sul piano delle iniziative giudiziarie, all’ipotesi in cui il curatore debba valutare l’opportunità di esperire (e di farsi, all’uopo, autorizzare) un’azione revocatoria di prevedibile lunga durata, allorquando gli esiti del giudizio siano incerti e il credito fatto valere sia di importo esiguo.

Certamente, sussiste una responsabilità del curatore che abbia ingiustificatamente ritardato le operazioni di liquidazione, impedendo alla procedura di lucrare gli interessi sui depositi attivi e pregiudicando, quanto meno temporalmente, l’aspettativa di soddisfazione dei creditori (Trib. Milano 22 febbraio 1993, ivi, 1993, 554). Ciò, a seguito della riforma, è maggiormente sostenibile, se solo si considera che la nuova normativa consente al curatore di procedere alla liquidazione dell’attivo da subito, senza essere costretto ad aspettare la chiusura dello stato passivo.

Anche l’eventuale pendenza del giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento non rappresenta un ostacolo all’inizio o alla prosecuzione della liquidazione (salva espressa sospensiva da parte del collegio), onde il curatore non potrà incorrere in alcuna responsabilità per aver provveduto alla liquidazione.

Nel caso in cui siano stati inventariati beni deteriorabili e deprezzabili, il curatore è tenuto a chiedere, anche prima dell’approvazione del programma di liquidazione, al giudice delegato l’autorizzazione a procedere alla loro vendita, ai sensi del penultimo capoverso dell’art. 104-ter (Cass. 22 aprile 1989, n. 1925, ivi, 1989, 912, ed in Foro it., 1990, I, 638).

Del resto, il D.L. n. 183/2015 ha introdotto una significativa novità, ossia la necessità che il programma di liquidazione contenga l’espressa indicazione del “termine entro il quale sarà completata la liquidazione dell’attivo” e che il termine stesso non possa eccedere due anni dal deposito della sentenza di fallimento.

Rappresenterà una giusta causa di revoca del curatore anche il mancato rispetto del termine dei due anni.

Nel programma di liquidazione dell’attivo, il curatore deve dare specificamente conto della possibilità di cessione unitaria dell’azienda, di singoli rami, di beni o rapporti giuridici (sul concetto di azienda, Cass. 26 settembre 2007, n. 20191, in Giust. civ., 2008, 2, 365; Cass. 9 novembre 1995, n. 11531, in Mass. Giust. civ., 1995, fasc. 11; Cass. 15 maggio 2006, n. 11130, in Mass. Giust. civ., 2006, 5).

Il curatore, nel rispetto del principio del massimo realizzo, indica le modalità di cessione che reputa più convenienti, privilegiando la liquidazione atomistica dei beni solo quando si possa presumere un realizzo economico maggiore rispetto a quello ricavabile dalla vendita in blocco dei beni aziendali o dalla vendita dell’azienda nel suo complesso (quest’ultima tesa a garantire la continuità aziendale), contemperando anche l’interesse del ceto creditorio, cui si deve assicurare la maggiore soddisfazione possibile in sede di riparto.

Di cessione di azienda si può parlare non solo al cospetto di un complesso ancora produttivo, ma anche quando la stessa abbia ad oggetto, oltre che una parte secondaria del più ampio complesso, un insieme di beni organizzati solo potenzialmente finalizzati alla produzione, sia pure quando la gestione dell’impresa non sia ancora attuale o sia temporaneamente sospesa (così Cass. 25 giugno 1981, n. 4142, in Mass. Giust. civ., 1981, fasc. 6; si segnala, sia pure in tema di affitto di azienda, Cass. 14 maggio 1981, n. 3184, in Mass. Giust. civ., 1981, fasc. 5; ancora Cass. 18 giugno 1981, n. 4009, in Foro it., 1982, I, 177).

Per il contratto di cessione d’azienda, la legge prescrive la forma scritta solo ad probationem, facendo salva l’osservanza delle disposizioni normative per il trasferimento di singoli beni che compongono l’azienda ovvero per la particolare natura del contratto.

Esso, pertanto, ben potrà essere redatto per atto pubblico ovvero per scrittura privata autenticata e dovrà, in ogni caso, essere depositato per l’iscrizione presso il registro delle imprese nel termine di trenta giorni dalla stipula, a pena di inopponibilità ai terzi e conseguente responsabilità del fallimento per le obbligazioni contratte dal cessionario (cfr. Cass. 11 febbraio 2005, n. 2838, in Giur. it., 2006, 2, 301).

La previsione della forma scritta ad probationem di negozi che hanno ad oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento dell’azienda concerne esclusivamente i rapporti fra cedente e cessionario, fra i quali è incorsa la relativa convenzione, mentre di questa i terzi ad essa estranei sono abilitati a fornire la prova senza soggiacere alla suddetta limitazione (Cass., Sez. lav., 18 aprile 1984, n. 2518, in Mass. Giust. civ., 1984, fasc. 3-4). Da ciò deriva che i terzi possono fornire la prova dell’intervenuto trasferimento dell’azienda anche con testimonianze e presunzioni (Cass. 11 luglio 1987, n. 6071, in Mass. Giust. civ., 1987, fasc. 7).

La S.C. ha chiarito che il complesso di beni costituito in azienda costituisce una tipica universalità di beni ai sensi dell’art. 816 c.c., per la quale non può trovare applicazione il principio dell’acquisto immediato in virtù del possesso ai sensi dell’art. 1153 c.c., stante l’esplicita esclusione sancita dall’art. 1156 c.c. (Cass. 26 settembre 2007, n. 20191, in Mass. Giust. civ., 2007, 9).

Il curatore può adottare tre distinte tipologie di procedure competitive: la vendita a trattativa privata; la vendita a procedure competitive semplificate; la procedura competitiva rigida.

Per quanto concerne la vendita di singoli rami di azienda, va evidenziato che il requisito oggettivo dell’identità del ramo aziendale e dell’autonomia organizzativa e funzionale non deve necessariamente essere preesistente rispetto al trasferimento del ramo di azienda (Cass. 27 febbraio 2004, n. 3973, in Giur. it., 2004, 1197).

Qualora l’azienda acquisita all’attivo fallimentare sia costituita anche da beni immobili, il legislatore ha riconosciuto al giudice delegato anche il potere di ordinare con decreto la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché alle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo (Cass. 17 settembre 2002, n. 13583, ivi, 2003, 343, e Cass. 18 giugno 2010, n. 14760, ivi, 2010, 1142).

L’art. 2558 c.c. prevede la successione ipso iure nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda da parte dell’acquirente, salva diversa pattuizione, ad esclusione dei contratti aventi carattere personale. Al terzo contraente ceduto è concesso di recedere dal contratto, per mutamento della controparte contrattuale, entro tre mesi dalla notizia del trasferimento e solo se sussiste una giusta causa.

Come nel caso di affitto d’azienda, così anche nell’ipotesi di vendita, il fenomeno successorio distingue il caso dei contratti completamente eseguiti e di quelli in cui residuano prestazioni a carico di solo una delle parti, per i quali non si applica l’art. 2558 c.c. (perché, in caso di unicità della prestazione, saremmo solo di fronte a un debito o a un credito del fallimento: Cass. 25 gennaio 1979, n. 564, in Giur. it., 1980, I, 1, 156), dal caso dei contratti in corso, che contemplano prestazioni ancora da eseguire per entrambe le parti, per i quali è dubbia la possibilità di un subentro automatico ex art. 2558 c.c.

Per quanto attiene ai contratti di lavoro dipendente, posto che il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento, nell’ipotesi di mancata disdetta in tempo utile da parte della curatela (Cass., Sez. lav., 3 febbraio 1994, n. 1091, in Riv. giur. lav., 1995, II, 481), opera la regola dell’art. 2112 c.c., che disciplina la continuità dei rapporti di lavoro in corso con l’azienda ceduta (Cass., Sez. lav., 23 giugno 2001, n. 8617, in Mass. Giust. civ., 2001, 1250).

L’art. 105, comma 3, l.fall. contempla un’eccezione a questa regola, al ricorrere di determinate condizioni contemplate dall’art. 47, comma 5, L. 29 dicembre 1990, n. 428. Quest’ultimo, ritenuto necessario il presupposto della cessazione dell’attività aziendale (Cass., Sez. lav., 21 marzo 2001, n. 4073, in Dir. comunitario e scambi internaz., 2002, 535), prevede che, nell’ambito di consultazioni sindacali finalizzate ad informare i lavoratori dei motivi del trasferimento, fosse possibile, in occasione del trasferimento di imprese sottoposte a procedure concorsuali, stipulare un accordo di trasferimento anche solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell’acquirente. In siffatta evenienza, inoltre, per i lavoratori, il cui rapporto continui con il cessionario, non trova applicazione l’art. 2112 c.c. con la sua disciplina estremamente garantista (Cass., Sez. lav., 8 settembre 1999, n. 9545, in Giur. it., 2000, 1376; Cass., Sez. lav., 12 maggio 1999, n. 4724, in Dir. lav., 2000, II, 183).

Stante la formulazione dell’art. 105, comma 3, l.fall., esso non risolve il dubbio se, nel caso di imprese trasferite con meno di 15 dipendenti, continui ad applicarsi la regola contenuta nell’art. 2112 c.c. o possa estendersi loro il quarto comma dello stesso art. 105 l.fall. (che tendenzialmente esonera l’acquirente dalla responsabilità per il pagamento dei debiti aziendali sorti prima del trasferimento).

La responsabilità del cessionario per i debiti che derivano dal rapporto di lavoro non si estende ai debiti contributivi nei confronti degli enti previdenziali, in quanto per tali debiti non può operare l’art. 2112, comma 2, c.c. Invero, la solidarietà del cessionario è limitata ai soli crediti di lavoro del dipendente e non riguarda, quindi, i crediti dell’ente previdenziale, che è soggetto terzo. Per i rapporti in corso al momento del trasferimento, il cessionario risponde del T.F.R. ed è unico debitore anche per le obbligazioni relative al periodo pregresso in cui il lavoratore era alle dipendenze del cedente, atteso che solo al momento dello scioglimento del rapporto di lavoro matura il diritto del lavoratore al relativo trattamento, del quale la cessazione del rapporto è fatto costitutivo (Cass., Sez. lav., 9 agosto 2004, n. 15371, in Mass. Giust. civ., 2004, 7-8; Cass., Sez. lav., 13 dicembre 2000, n. 15687, in Giur. piemontese 2001, 150; Cass., Sez. lav., 14 dicembre 1998, n. 12548, in Mass. Giust. civ., 1998, 2580).

La giurisprudenza, aderendo alla concezione dell’azienda come universalità di beni, diritti, crediti e debiti, è concorde nel ritenere che la cessione d’azienda comporti anche il trasferimento dei crediti ad essa inerenti, salva contraria volontà manifestata dalle parti del contratto di cessione.

In applicazione del principio generale dell’art. 1263, comma 1, c.c., per effetto della cessione, il credito è trasferito al cessionario con i privilegi, con le garanzie personali e reali e con gli altri accessori. In ordine al passaggio dei privilegi, è saldo il risalente principio (così Cass., Sez. lav., 18 luglio 2006, n. 16383, in Mass. Giust. civ., 2006, 7-8) per il quale, con il perfezionamento del negozio di cessione, il cessionario è legittimato, in via esclusiva, all’esercizio di tutte le azioni dirette a ottenere la realizzazione del credito (compreso l’azione di condanna al risarcimento del maggior danno derivante dal ritardo nel soddisfacimento del credito stesso; cfr. Cass., Sez. lav., 5 gennaio 2012, n. 13, in Mass. Giust. civ., 2012, 1, 6).

Tra le molteplici modalità dismissive contemplate dall’art. 105 l.fall. si distingue, per la sua intrinseca peculiarità, il conferimento d’azienda, quale operazione societaria, che, ispirata dall’intento di conseguire un effetto segregativo del patrimonio dell’imprenditore insolvente, offre un ulteriore strumento volto a consentire la prosecuzione dell’attività di impresa.

Il conferimento dell’azienda nella “società veicolo” rappresenta una soluzione che potrebbe presentarsi particolarmente vantaggiosa ai fini della liquidazione fallimentare: le azioni (o quote) della società conferitaria potrebbero incontrare il gradimento di una più ampia platea di soggetti interessati all’acquisizione; tanto senza voler considerare la possibilità che le partecipazioni stesse (in tutto o in parte) potrebbero essere destinate (e/o offerte in sottoscrizione) agli stessi creditori sociali (si veda Trib. Milano, Sez. II, 11 maggio 2012, in Il Fallimentarista).

La S.C. ha chiarito che il divieto quinquennale di concorrenza stabilito dalla norma di cui all’art. 2557 c.c. per l’ipotesi di alienazione di azienda non riveste carattere di specialità o eccezionalità (Cass. 16 febbraio 1998, n. 1643, in Mass. Giust. civ., 1998, 353; Cass. 20 gennaio 1997, n. 549, in Dir. fall., 1997, II, 448). Pertanto, la menzionata disposizione è applicabile in via analogica a tutti i casi in cui, per la realizzazione degli effetti economici del negozio di trasferimento, sia necessario che una delle parti si astenga dal fare concorrenza all’altra per non vanificare la ragione dell’acquisto. Invero, il fallito, iniziando un’attività concorrenziale, potrebbe vanificare il valore intrinseco (vale a dire, la redditività patrimoniale) dell’azienda (cfr. Corte cost. 6 dicembre 2000, n. 549, in Giur. cost., 2000, 6).

In fase di liquidazione dell’attivo fallimentare, il legislatore ha legittimato il curatore all’uso dello strumento della cessione dei crediti, che vengono trasferiti in capo al cessionario unitamente ai privilegi, alle garanzie personali e reali e agli altri accessori (cfr. Cass. 10 ottobre 2005, n. 20143, in Mass. Giust. civ., 2005, 10; Cass. 15 settembre 1999, n. 9823, in Giust. civ., 2000, I, 3273).

… fiscali e tributari

La cessione dei crediti fiscali, in particolare dei crediti IVA, è molto diffusa nella prassi giudiziaria; a ciò si aggiunga che, al momento della chiusura del fallimento, si pone per il curatore fallimentare il problema di realizzare i crediti tributari maturati nel corso della procedura, in particolare il credito per le ritenute d’acconto subite sugli interessi attivi bancari.

Esso non può essere chiesto a rimborso nel corso della procedura, dovendosi attendere il decreto di chiusura del fallimento, a seguito del quale presentare la dichiarazione finale dei redditi (Cass. 14 novembre 2001, n. 14127, in Il fisco, n. 11/1979, e Cass. 11 giugno 2001, n. 7838, estratto in La settimana fiscale n. 30/2001, e 29 dicembre 1995, n. 13154, in Il fiscovideo).

Tra i crediti espressamente indicati dall’art. 106 l.fall. vi sono i crediti futuri. La validità del contratto di cessione dei crediti futuri dipende dal fatto che, al momento della sua conclusione essi siano determinati o, comunque, determinabili (ipotesi che si verifica, esclusivamente, quando il rapporto giuridico da cui traggono origine i crediti ceduti sia già esistente; v., ex multis, Cass. 2 agosto 1977, n. 3421, in Rep. Foro it., 1977).

Poiché il contratto di cessione di credito ha sempre natura consensuale, esso si perfeziona con il solo scambio del consenso tra i contraenti, non essendo necessario che al perfezionamento del contratto consegua ipso facto il trasferimento del credito dal cedente al cessionario. La cessione di crediti futuri ha effetto solo obbligatorio, dal momento che l’effetto trasltivo si può produrre solo quando tali crediti verranno a giuridica esistenza (cfr. Cass. 7 aprile 2009, n. 8373, in Mass. Giust. civ., 2009, 4, 591; Cass. 10 maggio 2005, n. 9761, in Obbl. e contr., 2006, 5, 433); fino ad allora, il contratto avrà, infatti, solo efficacia obbligatoria (Cass. 22 aprile 2003, n. 6422, in Mass. Foro it., 2003, nonché Cass. 19 giugno 2001, n. 8333, in Giust. civ., 2002, I, 2875).

Non mancano problemi sotto il profilo della garanzia che il curatore deve fornire al cessionario. Nel silenzio normativo, sembrerebbe doversi ritenere che la cessione avvenga pro soluto (cfr. Cass. 5 febbraio 1988, n. 1257, in Banca, borsa, tit. cred., 1989, II, 295) e, nel caso in cui sorgessero contestazioni da parte del debitore ceduto, la curatela potrebbe essere chiamata in causa dal cessionario, a favore del quale persiste un’obbligazione di garanzia e la connessa responsabilità in capo alla curatela (cfr. Cass. 18 dicembre 1987, n. 9428, in Mass. Giur. it., 1987).

La possibilità per il curatore di procedere a una cessione pro solvendo (ex art. 1227 c.c.), invece, pur non essendo espressamente vietata, dev’essere necessariamente esclusa.

L’ultimo comma dell’art. 106 l.fall. prevede, in alternativa alla cessione dei crediti, la possibilità di stipulare contratti di mandato per la loro riscossione.

Il mandato all’incasso si differenzia dalla cessione del credito, perché, a differenza di questa, non ha mai efficacia traslativa, ma attribuisce al mandatario solo la legittimazione a riscuotere il credito in nome e per conto del mandante (in capo al quale resta l’esclusiva titolarità del credito). Naturalmente, prima che il credito sia incassato, la curatela potrà sempre optare per la cessione (al mandatario o ad un terzo) del credito ceduto (in senso conforme Cass. 3 febbraio 2010, n. 2517, in Mass. Giust. civ., 2010, 2, 157, e Cass. 12 dicembre 2003, n. 19054, in Riv. not., 2004, 1232).

Il curatore può cedere azioni revocatorie concorsuali, che sono non solo le revocatorie cc.dd. “di massa” (art. 67 l.fall.), ma anche le revocatorie ordinarie (artt. 66 l.fall. e 2901 c.c.) e le azioni di inefficacia (artt. 64 e 65 l.fall.).

Non manca chi ritiene che rientrerebbero tra le azioni revocatorie cedibili quelle ordinarie introdotte dal debitore prima della dichiarazione di fallimento e, a seguito di questa, dichiarate interrotte e poi successivamente riassunte dal curatore, cui spetta in via esclusiva la legittimazione all’esercizio dell’azione, agendo come sostituto processuale della massa dei creditori (siano essi anteriori o successivi all’attuazione dell’atto di alienazione del bene da parte del debitore, di poi fallito: in tal senso Cass. 21 luglio 1998, n. 7119, in Mass. Giur. it., 1998) e del debitore fallito.

Secondo l’opinione prevalente, oggetto della cessione non sono i beni oggetto della revocatoria, ma la facoltà che, per effetto dell’accoglimento della revocatoria medesima, si avrà di aggredire i beni stessi come se non fossero mai usciti dal patrimonio del soggetto fallito (contra, ma in via assolutamente minoritaria, Cass. 28 aprile 2003, n. 6587, in Guida dir., 2003, 26, 56). Invero, come è noto, il bene revocato non rientra nell’attivo fallimentare (o se si vuole nel patrimonio del fallito), ma soltanto nella garanzia dei creditori, che, per mezzo del curatore, possono agire esecutivamente su di esso (Cass. 31 agosto 2005, n. 17590, ivi, 2006, 5, 538; v. anche Cass. 19 settembre 2004, n. 18573, in Mass. Giust. civ., 2004, 9, e Cass. 21 giugno 2000, n. 8419, in Foro it., 2001, I, 1666).

Così configurato l’oggetto della cessione, il ceduto, convenuto in revocatoria, potrà sollevare anche nei confronti del cessionario tutte le eccezioni che avrebbe potuto sollevare nei confronti del curatore, ivi compresa quella inerente all’assenza di eventus damni, in virtù della capienza del patrimonio dell’imprenditore fallito. Determinando la cessione dell’azione revocatoria una successione a titolo particolare nel diritto controverso, il giudizio proseguirà tra le parti originarie e la sentenza emessa nei confronti del curatore cedente produrrà effetti anche nei confronti del cessionario. Quest’ultimo potrà intervenire nel giudizio e chiedere l’estromissione del curatore (cfr. Cass. 13 luglio 2007, n. 15674, in Mass. giur., 2007).

Nel caso in cui il fallimento sia stato chiuso prima della definizione del ceduto giudizio per revocatoria, il terzo convenuto soccombente in revocatoria, che sia stato costretto a restituire quanto ricevuto, potrà solo agire di regresso nei confronti del fallito tornato in bonis, e tentare di recuperare così il proprio credito.

L’art. 70, comma 2, l.fall. lascia, in ogni caso, aperto il problema se il soggetto soccombente in revocatoria possa insinuarsi per l’ammontare effettivamente oggetto della statuizione di inefficacia o per il minor valore corrispondente al corrispettivo del prezzo della cessione (v. Trib. Saluzzo 7 luglio 2008, ivi, 2009, 989).

(Altalex, 14 novembre 2018)

 

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