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Un effetto domino. Innescato dalla volontà di frodare erario e creditori, sottraendosi al pagamento di tasse e oneri finanziari, e poi perpetuato ogni qual volta la giustizia ha tentato di bloccare l’emorragia perseguendo i responsabili dei reati. A cadere, una dopo l’altra, le imprese utilizzate in prima battuta per distrarre le risorse finanziarie e poi a loro volta spinte verso un binario morto, nel momento in cui non erano più utili. È l’immagine che forse meglio rappresenta ciò che, secondo la procura di Catania, nell’ultimo decennio avrebbe caratterizzato la gestione della manutenzione delle linee di telecomunicazione in provincia e non solo. Ieri, i militari della guardia di finanza hanno eseguito il blitz che ha portato all’arresto di coloro che sono considerati i protagonisti dell’ultimo capitolo di una storia che parte da lontano. Nell’inchiesta, che non per caso è stata ribattezzata Filo conduttore, trova spazio anche la mafia. Gli affari lucrosi realizzati a valle del mercato governato dalle grosse aziende della telefonia sarebbero stati appannaggio di soggetti vicini al clan Pillera-Puntina.




Le stesse facce

Al centro dell’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e dai pm Fabio Saponara e Assunta Musella, ci sono Antonio Alfio Messina, Antonino Zingale e Silvestro Zingale. I tre, per i quali si sono aperte le porte del carcere, avrebbero rappresentato la continuità nei rapporti tra la Dosian – società per anni leader nei subappalti del settore delle telecomunicazioni e poi dichiarata fallita nel 2018 –, la Catania Impianti, ovvero la società su cui in una prima fase vennero dirottate le risorse e i contratti stipulati dalla prima, e infine la Tele.Net, l’ultima impresa su cui il gruppo avrebbe puntato nel momento in cui Catania Impianti era finita sotto il controllo del tribunale. A svolgere un ruolo simile anche la A.F Impianti di Santo Finocchiaro, anche lui arrestato.









Messina, gli Zingale e Finocchiaro, oltre a essere interessati tutti dall’accusa di bancarotta fraudolenta post-fallimentare, sono accomunati anche dai legami di parentela con la famiglia Pillera, che ha in Salvatore Pillera – meglio conosciuto come Turi Cachiti – lo storico capo del clan: Antonio Alfio Messina è pronipote del boss, mentre Santo Finocchiaro e Antonino Zingale sono nipoti di primo grado, Finocchiaro di sangue, il secondo acquisito.

Tramite la Tele.Net, intestata formalmente a un uomo che in cambio della disponibilità a fare da testa di legno avrebbe guadagnato qualche compenso e un posto di lavoro per il fratello, e la A.F. Impianti, i quattro avrebbero fatto in modo di mantenere le mani nella manutenzione delle linee di telecomunicazione a discapito proprio della Catania Impianti, la società che era passata sotto il controllo della giustizia.




I sospetti dell’amministratore

L’indagine ha preso avvio nel momento in cui Paolo La Scola, il commercialista chiamato ad amministrare la Catania Impianti all’indomani del sequestro, ha notato che improvvisamente il mercato dell’impresa sembrava essersi ristretto. “La Catania Impianti sino alla data del sequestro ha rappresentato una grossa realtà imprenditoriale operante nel settore delle installazioni e manutenzione di reti telefoniche – ha scritto La Scola a settembre 2021, in una nota indirizzata alla procura –. Qualche mese dopo il sequestro, i volumi d’affare sono diminuiti a causa di una concorrenza sulle stesse aree d’intervento della società da me amministrata, motivo per cui ho iniziato a nutrire dei sospetti sia nei confronti di alcuni dipendenti legati a rapporti di parentela con la precedente amministrazione, sia nei confronti degli ex amministratori dell’azienda, Silvestro Zingale e Antonio Messina”. Nella propria missiva, La Scola faceva presente anche la possibilità che alcuni dipendenti della Catania Impianti continuassero a fare gli interessi degli ex amministratori, fino al punto di rivelare le proprie strategie aziendali ma anche sottrarre beni. “Sospetto che rubino materiali e carburante alla Catania Impianti a favore di queste altre aziende poiché altrimenti non si giustificherebbe come mai, nonostante il calo del 40 per cento del fatturato, questi costi siano rimasti i medesimi dei mesi in cui il volume d’affari non aveva subito flessioni notevoli”.




Le accuse di complicità a Sielte

Il piano portato avanti dal gruppo di persone che avrebbe fatto gli interessi del clan Pillera non avrebbe potuto dare frutti senza avere il benestare di chi assegnava i subappalti. Di ciò è convinta la procura di Catania che ha chiesto e ottenuto l’arresto di Domenico Lombardo, il numero due di Sielte, azienda catanese con 28 milioni di euro di capitale sociale e 18 unità operative dislocate in tutta Italia. Sielte ha come propri interlocutori le società leader della telefonia, che a essa si rivolgono per la manutenzione delle reti. Un compito che a propria volta Sielte smista spesso ad altre ditte in regime di subappalto. Tra queste, appunto, Catania Impianti ma anche Tele.Net e A.F Impianti, ovvero quelle su cui il gruppo puntava per aggirare le misure del tribunale. “La Sielte – si legge nell’ordinanza firmata dalla gip Simona Ragazzi – ha operato nel tempo secondo il tipico schema dell’impresa collusa”.

Le tante intercettazioni raccolte dagli investigatori hanno portato gli inquirenti ad affermare che “la scelta di far confluire contratti e lavori di manutenzione prima svolti dalla Catania Impianti alla Tele.Net fosse il frutto di una precisa scelta, avallata dal management della Sielte”.

Do ut des

Si tratta di giudizi pesantissimi nei confronti di una società che sarà coinvolta anche nella gestione del servizio idrico in provincia di Catania. La Sielte, infatti, ha una quota – poco più dell’un per cento – in Hydro Catania, socio privato di Sie, il gestore unico per i prossimi trent’anni nell’intera provincia.

A puntare il dito contro le presunte complicità interne a Sielte è stato anche il collaboratore di giustizia Salvatore Messina, padre di Antonio Alfio, uno degli arrestati. Messina ha raccontato ai magistrati di riunioni riservate con il numero due di Sielte, Lombardo, per parlare – scrive la gip – “degli affari delle imprese del clan”.




Ma il collaboratore si è spinto anche oltre. Nei suoi verbali vengono riportati i tanti favori che il clan avrebbe fatto ai vertici di Sielte. A fine settembre del 2018, per esempio, Messina racconta di “come il clan fosse intervenuto per un recupero crediti (oltre 200mila euro, ndr) che gli affiliati al clan avevano poi effettuato nei confronti di un imprenditore sardo nell’interesse di una ditta di Roma che prendeva lavori in subappalto dalla Sielte”. I contatti tra la cosca e Sielte sarebbero iniziati tra gli anni Ottanta e Novanta, quando gli imprenditori operavano tramite la Itel (oggi proprietaria del 96% di Sielte). Un rapporto che, è la tesi del collaboratore riportata nell’ordinanza, “trascende gli schemi della succubanza estorsiva per diventare un patto di reciproca convenienza, per cui la società già allora assumeva fittiziamente tra i propri dipendenti membri del clan mafioso, erogando loro stipendi e somme aggiuntive, oltre che pagare un tributo periodico all’associazione, ricevendone in cambio la protezione”. I servizi offerti dal clan avrebbero previsto anche il recupero di automobili rubate e la ricerca degli autori di furti di gioielli.

Secondo il collaboratore, a essere a conoscenza dei rapporti che legavano Sielte alla galassia di imprese vicine al clan Pillera sarebbe stato anche l’amministratore delegato Salvo Turrisi, numero uno dell’azienda e cognato di Lombardo. Turrisi, che non è indagato, secondo Messina, “era consapevole che la Sielte doveva darci lavori”.

 

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